domenica 29 aprile 2007

Senza Titolo



Non sarà più un vortice a mettere in ordine
ciò che abbiamo smontato, come
chirurghi provetti che aprono un uomo
per capire com'è fatto e all'intero
ci trovano solo pezzi di motore e varia ferraglia.

C'è un letto di fiori su cui poggia una bara
per due; i cadaveri sono scappati verso vite
che come parallele si incontreranno solo quando
giungeranno al'infinito, quando ormai
ogni cosa sarà del tutto inutile.

Seguiranno maremoti e flussi d'incoscienza
che ci renderanno onda e naufraghi,
dispersi come dei Robinson Crusoe
ma senza eccellenti serie tv a farci sentire
almeno adeguati a qualcosa.

Non piango da un pezzo e ciò che resta
delle mie lacrime sono crisalidi
che non diventeranno mai farfalle;
sono ricordi sfumati dal mio organismo
che ha imparato a dimenticare il dolore.

Ma c'è qualcosa che afferro e so tenere:
c'è la vergogna che non vorrei provare,
le fotografie che ho bruciato e mille
proiettili conficcati tra il collo e lo sterno.
Ma va bene, non si può uccidere chi è morto.




domenica 22 aprile 2007

Mettiamo in chiaro una cosa



Io non sono come te e tu non sei come me. E probabilmente neppure tutti gli altri sono come noi. Ma non per questo io sono giusto e tu sei sbagliato. Non per questo tu sei dalla parte della ragione ed io da quella del torto. Io sono puro e vero di cuore. Per quanto concerne te non posso giurarci, ma sono certo che sei nato puro e vero di cuore anche tu. Io ho i miei valori e tu i tuoi e se li sosteniamo non lo facciamo unicamente per qualche forma di idealismo, ma anche per lo stesso motivo per cui la società crede nei suoi valori: coincidenza (insomma, perchè la battaglia di Maratona è andata in un certo modo e amen).
Odio tutti i pomposi intellettuali dal linguaggio ricercato (quelli che nel solo dire ciao provano a creare una voragine tra loro e il resto del mondo) che credono di detenere la verità. Non credo nella verità o, quantomeno, non credo nella Verità, credo alla mia verità e credo che esiste una tua verità; ma se le osserviamo bene, ci renderemo conto che sono solo punti di vista.
Mi piace stare a discutere sino a fare l'alba e mi piace se chi ho davanti sostiene le proprie idee con precisione e arguzia e prova a farle valere con la testa forza con cui faccio valere le mie. Ma se crede che mi farà cambiare idee allora può stare zitto. Amo il confronto, non sottopormi a qualcosa che un altro interpreta come lavaggio del cervello. Mi piace mettere a terra tutte le mie carte e poi osservare quelle dell'altro, l'ordine che ha posto, capire le differenze, comprenderle qualche volte. Anche se può capitare che mi senta stanco; capita a tutti.
Il fatto è che io non sono come te ed è questo il mio valore. Tu non sei come me ed è questo il tuo valore, chiunque tu sia. Possiamo provare ad incontrarci ma ho il diritto di urlare e anche di distruggerti se vai oltre i miei principi, e provi a calpestare qualcosa che per me è vitale. E tu puoi fare lo stesso con me.
Non lo trovi splendido?

giovedì 19 aprile 2007

Così va la vita



Non se ne è parlato abbastanza della morte di Vonnegut, o forse sono stato io a non riuscire ad ascoltare granché. L'ho saputo una settimana fa, mentre bevevo un frappè ad un bar. Chi me l'ha raccontato l'ha saputo leggendo la notizia sul televidio (lo stesso televideo da cui ha saputo che Pasquale Finicelli - alias Mirko dei Bee-hive nella serie televisiva ispirata a Kiss me Licia - lavora come autista di autobus). Ho pianto. Oddio, non proprio, giusto qualche lacrima che non sono riuscito a controllare. La cosa ha sconvolto la ragazza che sedeva di fronte a me, probabilmente si sarà domandata che razza di deficente è uno che piange per la morte di uno scrittore.
Avrei voluto scrivere qualcosa, ma in questo periodo le parole sembrano avermi abbadonato (e la prova è l'aver scritto "le parole sembrano avermi abbadonato", che non è che sia proprio il massimo dell'originalità). Così ho pensato a qualche citazione, ho sfogliato i libri che avevo, le interviste on line, cercando di evitare il più possibile Mattatoio N 5, a causa di quella sindrome da intellettuale spocchioso che a volte mi prende e che mi fa dire: "Naaaaaa, non posso citare proprio questa roba che conoscono tutti... devo trovare la minuzia che non conosce quasi nessuno". Insomma, una cosa ridicola.
Ho cominciato con lo sfogliarlo e poi ho letto il primo capitolo. Poi sono passato al secondo, al terzo e così via, riempiendo di orecchiette l'intero libro. Alla fine ho pensato di rileggere tutti i libri di Vonnegut che ho o, meglio ancora, di comprare tutti quelli che non ho ancora letto. Questo perchè c'era un piccolo paragrafo in quel romanzo che sembrava essere un addio grandioso e un per sempre ancora più brillante.

La cosa più importante che ho imparato su Tralfamadore è che quando una persona muore, muore solo in apparenza. Nel passato è ancora viva, per cui è veramente sciocco che la gente pianga al suo funerale. Passato, presente e futuro sono sempre esistiti e sempre esisteranno. I tralfamadoriani possono guardare i diversi momenti proprio come noi guardiamo un tratto delle Montagne Rocciose. Possono vedere come tutti i momenti siano permanenti, e guardare ogni momento che gli interessa. E' solo una nostra illusione di terrestri credere che ad un momento ne segue un altro, come nodi su una corda, e che quando un istante è passato sia passato per sempre.
Quando un tralfamadoriano vede un cadavere, l'unica cosa che pensa è che il morto, in quel momento, è in cattive condizioni, ma che la stessa persona sta benissimo in un gran numero di altri momenti. Oggi anch'io, quando sento dire che è morto qualcuno, alzo le spalle e dico ciò che i tralfamadoriani dicono dei morti, e cioè: "Così va la vita".

Ciao Kurt.

sabato 14 aprile 2007

S'è fatta ora



Da ragazzino, verso i 14 anni, avevo le idee chiare su ciò che volevo essere. Uno scrittore, per la precisione uno scrittore come Stephen King e Tiziano Sclavi. Negli anni a venire cambiai genere, così smisi di puntare all'horror; volevo essere come Bukowski e i cannibali (è vero, le due cose erano agli antipodi, ma la maggior parte delle unioni che mi costruivo - e che tutt'ora mi costruisco - hanno ben poco di logico e razionale, sono spinte dalla pancia. Un po' come quando da bambino mettevo la nutella e la mortadella in mezzo al pane; da sole erano perfette, ma il solo pensiero di una loro unione non può che far venire il mal di stomaco; però il loro connubbio mi andava bene. Ecco, per me le relazioni tra le idee e le cose si basano su questo banalissimo concetto: mi devono andare bene). Poi cambiai di nuovo: De Silva, Mozzi, Pascale e poi gli scrittori americani intellettuali e spocchiosi come Pinchon e De Lillo e, infine, Fitzgerald.
Li leggevo - li leggo - e mi chiedevo quando avrei scritto anche io come loro. Pochi mesi dopo avevo già cambiato la domanda: perchè non scrivo come loro? Fui bravo però, uno come me rischia di andare in paranoia dinanzi ad un quesito di questa portata, che non può che non risolversi in un'ammissione di una ben precisa mancanza di talento. Camminai sul baratro di questo precipizio con un buon equilibrio e avrei potuto farci anche un bel po' di chilometri, se solo non avessi incontrato Ena Marchi (editor e traduttrice dell'Adephi) che fece a pezzi quello che per era il mio racconto più sudato. Cercai di sorridere, di non farmi vedere giù. Mi trovavo in una classe di scrittura creativa e gli altri ragazzi fecero qualche battuta a riguardo, niente di cattivo, roba del tipo: "Ahahah tra tanti racconti ha distrutto quello di Umberto". Ero uno con cui si poteva scherzare, la cosa andava più che bene (anche se - ad essere sincero - provai un certo piacere quando la Marchi prese a cazzotti anche i loro scritti). Durante il breack della lezione andai in bagno, quando uscii fuori trovai la ragazza con cui stavo allora che mi aspettava con una faccia da cane bastonato. "Come va?" mi chiese. Capii subito che si riferiva al racconto. "Ha ragione, credo" risposi. "Le critiche servono a questo, no?". Lei fece cenno di si con la testa e mi abbracciò. In fondo non c'era nient'altro da aggiungere, neppure che era stampato sul mio volto che mi sentivo una merda e quella mia frase matura altro non era che una presa per il culo in piena regola.
Quello stesso giorno, dopo la lezione, scherzai con Antonella Cilento - la scrittrice che teneva il corso - chiedendole l'indirizzo della editor per poterle mettere una bomba sotto casa. Lei non rise, si limitò a dirmi con stizza: "Umbè, l'abbiamo capito che sai scrivere ma questo non serve. Devi scrivere delle cose che senti tue, non di roba che per te è come fantascienza. E poi devi essere incazzato. Se non sei incazzato puoi scrivere quanto ti pare, ma non ti serve a niente".
Pensai per un bel po' di smettere di scrivere. In fondo io non ero incazzato e questo perchè avevo impiegato l'ultimo anno della mia vita ad imparare a convivere con le cose che mi avevano fatto incazzare: le ragazze, mia madre, la scuola, i bulli che ti pestano senza ragione, l'incapacità di riuscire a fare quello che volevo. Oddio, queste cose non avevano smesso di farmi male, ma avevo imparato a sopportarle; insomma, avevo abbandonato la lotta e tutto poteva andare per il meglio. O almeno così credevo. Di certo non ero sereno, nè felice, ma cercavo di convincermi dell'opposto.
Alla fine smisi davvero di scrivere, ma fu giusto un'altra presa per il culo. Durò giusto un paio di mesi, nei quali rosicai di invidia nei confronti di tutti quelli che scrivevano e riuscivano a comporre qualcosa di decente. Non volevo smettere di scrivere in realtà, era solo una presa di posizione, un atto dimostrativo nei confronti di nessuno col quale materializzavo la mia protesta per il non essere lo scrittore che volevo essere.
Provate ad immaginare il vostro sogno da bambini, che è diventato quello di adolescenti e di ventenni spegnersi così, di colpo, lasciandovi una libreria strabordante che ha smesso di librare e che sembra urlare: "Il tuo libro non starà mai tra noi". Una cazzata sicuramente, ma una cazzata terribilmente importante. Leggevo i racconti pubblicati, quelli premiati e non mi piacevano.
Un lutto in tutto e per tutto, che poteva anche durare per un bel po' di tempo, se solo la ragazza di cui sopra non mi avesse scaricato di colpo, spostando su di se la priorità dei miei stati d'animo struggenti e distruggenti. Quello che seguì fu un periodo estenuante, il dolore della sua perdita fece venire a galla la rabbia, l'odio, l'insofferenza per tutte quelle cose che non mi andavano ben. Fu come aprire il vaso di Pandora, vedere fuorisciure tutta quella roba che, più che ad un gruppo di fastidiosi coinquilini, poteva essere paragonata ad un tumore.
O io o loro: non c'era altra scelta.
Così è cominciata la lotta, l'accettazione di Sé e il combattimento contro ciò che non va bene, che sia fuori o dentro non importa. Per Hemingway non esiste vita senza lotta, ma credo che sia importante che la persona contro cui lottiamo sia qualcosa di reale, che abbia un volto che non coincida col proprio.
Oggi combatto e, malgrado ci sono certi mulini a vento che non la smetteranno di ossesionarmi, esistono dei nemici di carne, ossa e idee contro cui volgo le mie forze; a volte perdo, altre vinco... ma non credo sia questo il punto.
Per quel che invece riguarda la scrittura, ho capito che scrivere ed essere uno scrittore sono due cose diverse. Essere uno scrittore comporta la voglia di essere pubblicato, lo scrivere di modo che ciò che si produce possa andare bene per un eventuale editore, per il pubblico, che piaccia, che si veda, che vada bene. Così mi limito a scrivere, per me, allo stesso modo in cui mia madre scrive la lista della spesa. Alla fine non la leggono in molti, ma almeno grazie a lei, quando si fa ora, possiamo mangiare tutti un'ottima cena. Il che non è poco.

martedì 3 aprile 2007

Kurt smells like teen spirit




Oggi è l'anniversario della morte di Kurt Cobain.
Non mi va di dire stronzate, non mi va di ascoltare o vedere quei programmi che parlano di lui e che passano a ripetizione l'intera discografia (e che lo fanno sempre e solo in occasione della ricorrenza della sua morte); non mi va di vedere l'immagine di lui che mostra l'uccello agli Mtv music award, non mi va di riascoltare la trama del complotto secondo cui non fu suicidio ma omicio, basta. Non mi va, Kurt è morto e non c'è nient'altro da aggiungere.
In questi casi sparano sempre a mille quelle storie sul Kurt Cobain idolo, simbolo di una generazione, essenza del grunge che è morto con lui. Ma il grunge è morto perchè ormai aveva fatto il suo corso; il grunge è morto come è morta la new wave inglese e la no wave newyrkese, è morto in silenzio, nel trascorrere del tempo; è morto con addosso una camicia di flanella e ai piedi un paio di All Stars da 15mila lire.
Kurt fondamentalmente era un depresso, un tossico, uno che strimpellava e rischiava di far cedere da un momento all'altro la sua voce quando cantava. Kurt era uno magro, scheletrico, che indossava tanti vestiti perchè aveva vergogna del suo corpo e così poteva sembrare più grosso. Kurt era uno che, se non si fosse sparato in bocca, oggi avrebbe 40 anni, una figlia, uno schifo di matrimonio fallito alle spalle (forse due), un battersita che l'ha mandato affanculo perchè più talentuoso di lui, e forse - immaginandolo oggi, ancora vivo - direbbe a tutti di non drogarsi, perchè è una stronzata, io ci sono passato e... ve l'assicuro, quella merda ancora oggi mi martella la testa e... quella roba vi incasina per sempre. Kurt oggi, forse, non canterebbe neppure
Smell like teen spirit ai concerti, così come i Radiohead non suonano più Creep.
Così mi viene da chiedermi perchè diavolo sto qui a scriverne.
La risposta è semplice: perchè Kurt per me è stato come un fratello; o, più semplicemente, come un amico immaginario. Nella solitudine della mia stanza, ascoltavo le sue canzoni e - mentre pensavo al mio schifo di vita da adolescente torturato, mentre pensavo alle ragazze che non mi guardavano, agli amici che non c'erano, ai bulli che mi pestavano, a mia madre che non mi capiva, mentre bevevo fino a vomitare, mentre mi incidevo profonde ferite sul corpo, mentre piangevo perchè non avevo le palle nè per vivere, nè per morire, nè per farmi valere, nè per arrendermi - avevo l'impressione che ci fosse lui a capirmi. E un po' mi sentivo meglio.
Ascoltavo Nevermind e avevo l'impressione di essere meno solo, che da qualche parte tutto quel dolore che provavo fosse condiviso, non solo da Kurt Cobain, ma anche da chi mi diceva "Ascolto i Nivana ma... non solo per la musica ma... per i testi, capisci? I loro testi sono importanti". Pareva che le ore di inglese a scuola servissero solo per poter tradurre quei pochi versi.
Eravamo una generazione perduta... allo stesso modo in cui lo sono tutte le generazioni di adolescenti di ieri e di domani. La musica dei Nirvana rappresentava il modo in cui eravamo persi, per questo non importava la voce strozzata (in fondo lo era anche la nostra), non importava la semplicità degli accordi, non importavano i Pink Floyd che erano meglio, Kurt puzzava del nostro stesso spirito. Tutto il resto non contava
poi molto.