Da ragazzino, verso i 14 anni, avevo le idee chiare su ciò che volevo essere. Uno scrittore, per la precisione uno scrittore come Stephen King e Tiziano Sclavi. Negli anni a venire cambiai genere, così smisi di puntare all'horror; volevo essere come Bukowski e i cannibali (è vero, le due cose erano agli antipodi, ma la maggior parte delle unioni che mi costruivo - e che tutt'ora mi costruisco - hanno ben poco di logico e razionale, sono spinte dalla pancia. Un po' come quando da bambino mettevo la nutella e la mortadella in mezzo al pane; da sole erano perfette, ma il solo pensiero di una loro unione non può che far venire il mal di stomaco; però il loro connubbio mi andava bene. Ecco, per me le relazioni tra le idee e le cose si basano su questo banalissimo concetto: mi devono andare bene). Poi cambiai di nuovo: De Silva, Mozzi, Pascale e poi gli scrittori americani intellettuali e spocchiosi come Pinchon e De Lillo e, infine, Fitzgerald.
Li leggevo - li leggo - e mi chiedevo quando avrei scritto anche io come loro. Pochi mesi dopo avevo già cambiato la domanda: perchè non scrivo come loro? Fui bravo però, uno come me rischia di andare in paranoia dinanzi ad un quesito di questa portata, che non può che non risolversi in un'ammissione di una ben precisa mancanza di talento. Camminai sul baratro di questo precipizio con un buon equilibrio e avrei potuto farci anche un bel po' di chilometri, se solo non avessi incontrato Ena Marchi (editor e traduttrice dell'Adephi) che fece a pezzi quello che per era il mio racconto più sudato. Cercai di sorridere, di non farmi vedere giù. Mi trovavo in una classe di scrittura creativa e gli altri ragazzi fecero qualche battuta a riguardo, niente di cattivo, roba del tipo: "Ahahah tra tanti racconti ha distrutto quello di Umberto". Ero uno con cui si poteva scherzare, la cosa andava più che bene (anche se - ad essere sincero - provai un certo piacere quando la Marchi prese a cazzotti anche i loro scritti). Durante il breack della lezione andai in bagno, quando uscii fuori trovai la ragazza con cui stavo allora che mi aspettava con una faccia da cane bastonato. "Come va?" mi chiese. Capii subito che si riferiva al racconto. "Ha ragione, credo" risposi. "Le critiche servono a questo, no?". Lei fece cenno di si con la testa e mi abbracciò. In fondo non c'era nient'altro da aggiungere, neppure che era stampato sul mio volto che mi sentivo una merda e quella mia frase matura altro non era che una presa per il culo in piena regola.
Quello stesso giorno, dopo la lezione, scherzai con Antonella Cilento - la scrittrice che teneva il corso - chiedendole l'indirizzo della editor per poterle mettere una bomba sotto casa. Lei non rise, si limitò a dirmi con stizza: "Umbè, l'abbiamo capito che sai scrivere ma questo non serve. Devi scrivere delle cose che senti tue, non di roba che per te è come fantascienza. E poi devi essere incazzato. Se non sei incazzato puoi scrivere quanto ti pare, ma non ti serve a niente".
Pensai per un bel po' di smettere di scrivere. In fondo io non ero incazzato e questo perchè avevo impiegato l'ultimo anno della mia vita ad imparare a convivere con le cose che mi avevano fatto incazzare: le ragazze, mia madre, la scuola, i bulli che ti pestano senza ragione, l'incapacità di riuscire a fare quello che volevo. Oddio, queste cose non avevano smesso di farmi male, ma avevo imparato a sopportarle; insomma, avevo abbandonato la lotta e tutto poteva andare per il meglio. O almeno così credevo. Di certo non ero sereno, nè felice, ma cercavo di convincermi dell'opposto.
Alla fine smisi davvero di scrivere, ma fu giusto un'altra presa per il culo. Durò giusto un paio di mesi, nei quali rosicai di invidia nei confronti di tutti quelli che scrivevano e riuscivano a comporre qualcosa di decente. Non volevo smettere di scrivere in realtà, era solo una presa di posizione, un atto dimostrativo nei confronti di nessuno col quale materializzavo la mia protesta per il non essere lo scrittore che volevo essere.
Provate ad immaginare il vostro sogno da bambini, che è diventato quello di adolescenti e di ventenni spegnersi così, di colpo, lasciandovi una libreria strabordante che ha smesso di librare e che sembra urlare: "Il tuo libro non starà mai tra noi". Una cazzata sicuramente, ma una cazzata terribilmente importante. Leggevo i racconti pubblicati, quelli premiati e non mi piacevano.
Un lutto in tutto e per tutto, che poteva anche durare per un bel po' di tempo, se solo la ragazza di cui sopra non mi avesse scaricato di colpo, spostando su di se la priorità dei miei stati d'animo struggenti e distruggenti. Quello che seguì fu un periodo estenuante, il dolore della sua perdita fece venire a galla la rabbia, l'odio, l'insofferenza per tutte quelle cose che non mi andavano ben. Fu come aprire il vaso di Pandora, vedere fuorisciure tutta quella roba che, più che ad un gruppo di fastidiosi coinquilini, poteva essere paragonata ad un tumore.
O io o loro: non c'era altra scelta.
Così è cominciata la lotta, l'accettazione di Sé e il combattimento contro ciò che non va bene, che sia fuori o dentro non importa. Per Hemingway non esiste vita senza lotta, ma credo che sia importante che la persona contro cui lottiamo sia qualcosa di reale, che abbia un volto che non coincida col proprio.
Oggi combatto e, malgrado ci sono certi mulini a vento che non la smetteranno di ossesionarmi, esistono dei nemici di carne, ossa e idee contro cui volgo le mie forze; a volte perdo, altre vinco... ma non credo sia questo il punto.
Per quel che invece riguarda la scrittura, ho capito che scrivere ed essere uno scrittore sono due cose diverse. Essere uno scrittore comporta la voglia di essere pubblicato, lo scrivere di modo che ciò che si produce possa andare bene per un eventuale editore, per il pubblico, che piaccia, che si veda, che vada bene. Così mi limito a scrivere, per me, allo stesso modo in cui mia madre scrive la lista della spesa. Alla fine non la leggono in molti, ma almeno grazie a lei, quando si fa ora, possiamo mangiare tutti un'ottima cena. Il che non è poco.