martedì 26 giugno 2007

Luogo comune del quarantenne



Quindicimila giorni secchi son passati,
quindicimila occasioni già sfumate,
quindicimila soli invano nati,
ora ed ora contati
in questo austero, ma grottesco gesto
di dar la corda a orologi finti
per cercare, negli anni trascurati,
la pazienza di vivere il resto.

José Saramago

venerdì 22 giugno 2007

Isolazionismi



La voglia è quella di lasciare tutto, riempire lo zaino di libri (quelli di studio, un paio di saggi, dei romanzi usciti da poco e qualche cosa di vecchio trovato sulle bancarelle in volume della Newton), comprarmi un i-pod, stivarlo di mp3 e partire. Non importa altro. Ho bisogno di restare solo, isolarmi dal mondo e osservarlo con la testa martellata dai fruscii elettronici di Murcof, dalle dissonanza dei Faust e dall'epico gelo dei Sigur Ros. La musica ha uno strano potere: riesce a dare una consistenza diversa alla realtà che mi si para davanti, la deforma lasciandola uguale a se stessa, come se il mutamento che opera non sia superficiale, ma intacchi la sua essenza più profonda; così mentre tutto scorre come al solito, mentre ogni singolo individuo è occupato nei suoi da fare, attraversando strade, entrando e uscendo da edifici vari, ho l'impressione che sia diverso, più meccanico, una specie di alieno perso nel nulla (come me). Come nel film L'invasione degli ultracorpi, in cui le persone restano uguali, per quanto siano state modificate dagli alieni che ne hanno invaso gli organismi, e continuano a fare ciò che fanno da una vita, ma con un senso si estranietà che solo chi viene da un altro mondo può provare.
La meta è Cetraro: un paesino della Calabria (saudita), dove i miei ogni hanno fittano una villetta che da sul mare. Passo il tempo leggendo, facedo lughe camminate e, quando il caldo diventa troppo, vado a mare, dedicandomi a nuotate che si interrompono solo quando ho l'impressione di cedere da un momento all'altro. Mi piace sentire l'acqua che mi avvolge, fendendola con bracciate violente, come se dovessi chiavere l'intera superficie azzurra col corpo intero; mi piace sentire i muscoli contrarsi e rilassarsi e poi lasciarmi cullare dalle onde a riva, osservando i bagnanti chiassosi, immersi nella loro vita fatta di risate e urla, mentre dentro di me il silenzio è fragoroso come non mai.


giovedì 21 giugno 2007

La merce invenduta piange



Io se fossi un pannolino avrei bisogno della merda di un

Bambino per esistere
Perché la merce invenduta piange
E non capirei perché un bambino nella sua vita caga
Migliaia di pannolini ma non me
Che sono un pannolino normale come gli altri
Con il mio codice a barre normale
Sulla scatola.

E se fossi uno di quei cosi con la neve e con padre Pio
Penserei di essere meglio di un soprammobile di Giò
Pomodoro perché
Tutte le merci sono uguali di fronte a Dio
E starei male a essere messo in vendita
Alla stazione Centrale di Milano
In un angolino della vetrina del tabaccaio
Tra un cazzo finto e un portasigarette di plastica con lo
Stemma del Milan
Languendo
Per giornate deriso
Perché la merce invenduta piange.

Io conosco il dolore delle pile dei sacchi della spazzatura
Nascosti dietro le scope
Nel reparto casalinghi
Del supermercato, sacchi della spazzatura
Verdi un tempo imposti per la raccolta differenziata dal
Comune e adesso
Negletti e impolverati, decaduti
Plastica più sola di un'anima a marcire

Io conosco il dolore della "gelatina per dolci
Già detta colla di pesce" sommersa
Sa bustine di lieviti Bertolini e sacchetti di zucchero in Scaglie per le guarnizioni
Lo conosco e se io fossi lei mi chiederei perché
Sono "gelatina per dolci già detta colla di pesce"
E non, ad esempio, una fulgida appetitosa scatola
Di mezzo chilo di mezze penne Barilla,
di quelle che si vendono a migliaia
nei supermercati di tutto il mondo.
Io penserei questo tutto il giorno e continuerei a piangere
Perché la merce invenduta piange
E il suo dolore è tanto simile al nostro
Biologico stare sul mercato fino a che c'è domanda
Fino a che l'articolo che siamo non deperisce

Come un diplomato di 52 anni alla ricerca del primo lavoro
Come un corridore automobilistico amputato
Come una ragazza in Giappone
Che a 25 anni nessuno l'ha sposata
Sugli scaffali della vita raggelata miscela
Leone scaduta nel reparto
Caffè o sugo di cinghiale con l'etichettta scollata

Scatole di sale dietetico schiacciata

di Aldo Nove



martedì 19 giugno 2007

Autunno



Il 2000 ha questa peculiarità: ogni giorno sembra un giorno autunnale. Non parlo di quell'autunno ben definito, dalla foglie che cadono e rendono la strada dello stesso colore del tramonto, ma di quello che ci fa dire "Le mezze stagioni non esistono più", e alterna l'afa ad una pioggia che non è fredda e non è forte, ma che comunque costringe a restare chiusi a casa.

Aldo Nove ha scritto che negli anni '80 è stato sempre inverno e Tommaso Labranca ha agginto: "Anche se non era inverno, chi amava l'inverno poteva riuscirlo a scorgere ovunque". Per me l'inverno sono stati gli anni '90. Ma se l'inverno di un varesino e di un milanese è caratterizzato dal biancodalla neve, l'inverno di uno che vive a Napoli altro non è che una notte sporca che arriva prima del dovuto. L'inverno di un ragazzo vissuto a Napoli è fatto di pioggia che scroscia sino ad aprire le strade, facendo intasare le arterie della città di un traffico di auto strombazzanti, che fremono nei movimenti sincopati dei tergicristalli.
Gli anni '90 sono stati un inverno anche emotivo, ma a questi non è succeduta la primavera, ma un autunno confuso e mite come tutte quelle stagioni che sembrano promettere tanto e alla fine sono solo un susseguirsi di giorni gli uni uguali agli altri.
Durante quell'inverno eravamo convinti che le nuvole si sarebbero diradate, mostrando un cielo che ci avrebbe allettato con mille promesse diverse. Invece il 2000 è cominciato col 11 settembre, con l'immagine del primo aereo che esplodeva nella prima torre, e del secondo che andava a schiantarsi contro l'altra. Il 2000 è cominciato con il loop delle immagini a rallentatore dell'attentato terroristico contro l'America, che si è impresso così a fondo della nostra memoria che, quando lo riportiamo alla mente, non possiamo fare a meno di vedere i due boing andare contro le torri gemelle ad una velocità tale da farci credere che da un momento all'altro questi imponenti edifici di cemento e acciaio possano sradicarsi dalle loro fondamenta ed evitare l'attacco. Dopo l'esplosione però i due grattacieli tornano illesi e compare di nuovo il primo aereo. Come nella teoria dell'eterno ritorno di Nietzsche, ogni cosa viene rivvissuta in maniera identica, senza la possibilità di una sola variazione, senza la stupida illusione di riuscire a cambiare le cose.
Questo è l'autunno del 2000, i colori bruni non ricordano le foglie secche, ma le immagini di blob in cui la percezione visiva viene distorta apposta. Non c'è nulla di definito: nelle notizie al telegiornale, nell'iperestesia delle informazioni che gira su internet, nei blog cantilentanti o deprimenti (e quasi sempre autocelebrativi) che ci inonandano di nozioni inutili che spesso si sedimentano nella nostra coscienza, cristallizzando quella che può essere definita la Filosofia del Nulla e del Superluo.
E noi altro non siamo che specchi viventi di questa condizione. Fruitori - consapevoli o inconsapevoli - di una mediaticità per nulla medianica, consumatori - attivi o passivi - di prodotti assurti a ruolo di status simbol o di lifestyle, che con la loro prosteticità illudono di mutare il nostro stesso senso, lasciando però inalterata forma e pensiero, e riducendosi unicamente ad una serie di costose connessioni, in grado di metterci in contatto con il resto del mondo. Ma la finalità di questa comunicazione altro non è che una comunicazione fine a se stessa, fatta di significanti e non di significati, che rivela una globalità vuota sotto lo strato di accessori superflui.
Ecco l'autunno, che invece di durare una sola stagione si protrae per un anno (per dieci anni), appiattendo, rendendo ogni cosa dello stesso e identico colore sfocato, ripetendo i suoi loop di eventi, e lasciando immutano il suo clima che non è nè caldo, nè freddo, che fa scorgere il sole senza però farne sentire il calore


giovedì 14 giugno 2007

Lisbona



Lisbona è fatta di salite e discese che si percorrono con ripide scale capaci di lasciare senza fiato. Ricordo che quando andavamo a fare la spesa, la cosa più massacrante era comprare l'acqua per nove persone, caricarsela sulle spalle e percorrere quelle rampe che mettevano a dura prova il nostro fisico già abbastanza provato dalle ore piccole e dai i postumi di sbronza.

Abitavamo vicino al Barrio alto, un quartiere storico formato da vicoli che si intrecciano, creando un reticolato di strade le une uguali alle altre. Ogni centro metri c'è un locale e ovunque una folla di ragazzi che bevono e ridono e si baciano. Mentre l'attraversavo avevo l'impressione di non aver mai visto ragazze e ragazzi più belli. Avevano tutti qualcosa negli occhi e le labbra contratte in un sorriso, mentre il corpo era sudato e si lasciava raffraddare la lunghe sorsate di birra a basso costo, che si alternava con shot di rhum o vodka.
La prima sera lì io e Debby ci muovevamo frenetici, ricordando alcuni articoli di Tondelli che raccontavano di posti come quello, in cui si riusciva a respirare un'aria di comunione e di amicizia mai annusata prima.
Per conoscere qualcuno bastava semplicemente offrirgli da bere e poi cominciare a parlare, in un incontro di lingue diverse che abbozzavano parole in inglese e davano forma a discorsi che si andavano a mischiare a quel vociare confuso che dava forma a tutta la notte.

La mattina era dura svegliarsi, lavarsi e prima dell'una non riuscivamo mai ad uscire di casa, lasciando in sospeso tutte le pulizie che venivano rimandate a poi. Anche se quando arrivava il "poi" la voglia mancava e ci ritrovavamo a ballare seminudi per casa, mandando giù sorsate di vino, sculettando al ritmo di Karma Chameleon, oppure cenando sul terrazzo che dominava metà della città e ci permetteva di osservare il sole che sembrava sparire dietro il castello in lontananza, mentre le luci lentamente si accendevano, come lucciole immobili che formavano costellazioni di terra.

La mattina c'era la lotta per riuscire a mangiare gli M&M's avanzati dalla sera prima e Sybil - che era l'ultima a lavarsi - si ritrovava sempre con pacco vuoto e s'incazzava non poco perchè che diavolo, almeno un paio di quelle cose gliele potevamo pure conservare.

Di Lisbona ricordo questa cosa: sembrava che ogni strada, ogni persona, ogni palazzo e tutto ciò in cui ci imbattevamo fosse a misura nostra. Era come una città partorita dai nostri sogni, dalle nostre aspettative che in fondo non erano chissà quanto pretenziose: volevamo conoscerci, stare insieme, ridere per delle stronzate e stare bene senza renderci conto del perche. Insomma, tutto era perfetto. Scale escluse, ovviamente.

Una sera ci ritrovammo in un locale gay. Ci portò uno spagnolo conosciuto un paio di giorni prima. "C'è della buona musica elettronica" si giustificò, quando io Gabriele e Paolo facemmo la faccia storta. Provai a ballare nella pista da ballo, incollato a Debborah come un amante passionale (e forse pure un po' morboso), ma dopo neanche un minuto: "Debby, mi hanno toccato il sedere... Debby, mi hanno accarezzato il collo... Debby, mi hanno maniato il pacco, andiamo via!"
Restammo lì a lungo, per poi finire in un'altra strada, a terra come tanti altri, prendendo in giro una ragazza conosciuta poche ore prima, tutta presa dallo scaricare un ragazzo con cui aveva avuto una storia la sera precedente e che in risposta piangeva.

Ricordo quella settimana come l'ultimo capitolo di amicizie poi naufragate, o semplicemente consumate (come succede a tante altre cose). Ricordo Debborah in lacrime in una notte passata sull'amaca, con le cuffie che le sparavano a tutto volule The best of you; un pianto di gioia, mi assicurò lei ed io non potei fare a meno di pensare che tra la felicità e la disperazione c'è una linea così sottile che è diffice vederla bene. Ricordo una mattina in cui io e Gabriele tornammo all'alba e trovammo Jerry, un capoverdiamo dal fisico perfetto che aveva passato la notte con una delle ragazze e poi era stato esialiato su quel divano che era troppo piccolo e lo faceva dormire rannicchiato, quasi come un feto. Ricordo i miei capelli blu cadere a ciocche sotto i colpi di macchinetta che Paolo passava sulla mia testa, perchè ormai si era fatto il momento di tornare a casa, allo studio, al lavoro e che credibilità può avere un giornalista con un acconciatura del genere?


Ricordo che in quella settimana Lisbona si è impressa dentro di me come solo Londra è riuscita a fare, ma in un modo completamente diverso. Ricordo che in quella settimana con Debby, Carmen, Gabriele, Paolo e Angela mi sono sentito felice di una felicità così dolce e serena da illudermi di essere di grado di farla durare per sempre.

mercoledì 13 giugno 2007

Ok, si ricomincia!



intanto la mia vita fugge in diagonale
ritorna prepotentemente un desiderio morale
Franco Battiato


Periodo strano questo. Se da un lato l'arrivo dell'estate impone quasi un libertinaggio sfrenato, titillando gli ormoni e accaldandoli più del dovuto, dall'altro lato c'è che in me si è risvegliato una sorta di desiderio d'altro, che mi fa vedere avventure e aventurette come qualcosa di noioso. Sarà che le ultime esperienze che ho avuto non sono state delle migliori e questo perchè, prima di tutto, stimavo queste giovani pulezzelle della stessa stima che si può provare per delle buste di plastica. La domanda, quindi, sorge ovvia: perchè le frequentavi? Semplice: per quel machistico e squallido senso di dover dimostrare il proprio valore col numero di compagne di talamo. E, per quanto io sia il primo a non credere in queste cose, non posso fare a meno di subirne la pressione. Ma adesso è diverso.
Quando parlo di bisogno d'altro non mi riferisco al desiderio di una relazione fissa, che ricalchi il modello tanto caro ai conservatori, quanto ad un bisogno di condivisione e di passionalità. Ma questo desiderio non riguarda solo la sfera erotica, bensì l'intero universo emotivo. Credo che negli ultimi mesi mi sono un po' cristallizzato su me stesso, senza cercare niente di nuovo, accontendandomi delle solite conoscenze, questo sia per un timore di nuovi confronti, sia per quella solita insicurezza che mi porto dietro da sempre (e che lentamente sto cercando di sconfiggere).
Così malgrado l'estate - con i vestiti scollati e i corpi sudati - imponga di far l'amore da Trieste in giù (come insegna l'eccellente geografia sessuale tracciata da Raffaella Carrà), di salterllare da una discoteca all'altra e di dedicarsi alla propria abbronzatura, ciò che io ho voglia di fare è coltivare i miei interessi: conoscere gente, parlare, leggere, scrivere, apprendere nuovi punti di vista, litigare, curare un po' quella parte di me stesso che ho lasciato stare in cambio di una leggerezza che ormai mi ha riempito. Ho bisogno di nuovi incontri, di nuove esperienze, di nuove persone; ho bisogno di ricominciare a crescere.


lunedì 11 giugno 2007

Cyberdress



La società cyborg si estende entro i confini del capitalismo multinazionale, dal Giappone all'Europa al Nord America alle ènclaves più ricche del secondo e terzo mondo, e così fa la soggettività cyborg.
La soggettività cyborg è presente ovunque gli indivdui abbiano accesso all'interfaccia di quell'apparato complesso che lega fra loro macchine/schermi/pc/modem/fax/satelliti/televsioni via cavo/telefoni celluari ecc. del tardo capitalismo. In queste società ad alto potenziale tecnologico non solo siamo avvolti un una "meccanosfera" che potezia ed estende la nostra attività sensomotoria, ma siamo anche immersi in uno spazio mediatico e cibernetico che avviluppa i nostri corpi in quasi tutti i momenti dell'esistenza e a un livello quantitativo e qualitativo che non ha precedenti nella storia umana. Questa tecnologia è descritta da alcuni come un sistema nervoso esterno collegato a noi tramite una variertà di apparati, dispositivi, microconnessioni. Le immagini cruciali in questo genere di connessioni sono quelle delle protesi e dell'interfaccia, che a loro volta generano la visione di una soggettività "prostetica" e di un corpo "cablato".

Alessandro Gomarasca


La metafora del vestiario per designare l'interfaccia fra sé e tecnosfera implica che la corporeità è stata rivoltata dal dentro al fuori, proiettata verso la superficie dove l'esperienza tecnologica è stata trasformata in un ornamento che inscrive il corpo di nuovi significati.

Figueroa Sarriera

domenica 10 giugno 2007

Fede (2)



“La prima comunione, invece, te l’ho fatta fare perché la facevano tutti. Sei stato tu ad insistere ‘mamma ma io la comunione quando la faccio? ma io la comunione quando la faccio?’ ed io te l’ho fatta fare”. I discorsi sulla mia educazione religiosa non piacevano molto a mia madre, anche perché mettevano in discussione il suo operato di genitore, privo della sicurezza per poter affermare che il modo in cui aveva tirato su il figlio fosse il migliore. A dirla tutta non so come sono venuto su, ma credo che per il mio carattere e per il suo non poteva fare di meglio. Certo, in qualche punto qua e là mi ha anche incasinato la vita alla grande, ma credo che anche questo sia uno dei doveri dei genitori. E poi, a pensarci bene, meglio essere incasinati dalla madre, con la quale si ha un rapporto obbligato, piuttosto che da qualunque altra persona scelta da noi; almeno per gli anni a venire possiamo prendercela con loro, piuttosto che darci degli stupidi per aver concesso ad un estraneo la possibilità di renderci la vita un inferno.
Insomma, anche la prima comunione non aveva un bel niente di spirituale, era una semplice scusa per fare una festa che mi avrebbe fruttato un bel po’ di regali. Per l’occasione mia madre ripulì il cortile sotto casa, sino ad allora usato unicamente come parcheggio, lo abbellì con festoni, piante e tavoli colorati. Io invitai tutti i miei compagni di classe e lei invitò i parenti e gli amici di famiglia. I miei zii mi regalarono una stampante per il computer (che non usai mai), i miei nonni i soldi, mentre tutti gli altri una sfilza di Swach e di catenine d’oro.
Il rito religioso si tenne in una chiesa affollata di genitori ben vestiti, che facevano scattare le loro macchine fotografiche per immortalare i figli vestiti di bianco e che stringevano tra le mani un giglio. Noi bambini eravamo terrorizzati, un po’ perché tutta quella gente ci metteva in imbarazzo, e un po’ perché durante il catechismo ci avevano raccontato la storia di un bimbo che quando aveva preso un ostia l’aveva spezzata, facendone fuoriuscire il sangue di Gesù. Così inciampavamo e più che reggere con passione il giglio lo brandivamo come fosse una spada, ci guardavamo attorno con un misto di vanità e timore, e attraversavamo la navata centrale con un ansia mai provata prima. Quando fu il mio turno di prendere l’ostia chiusi gli occhi per la paura che potessi spezzarla, facendo così sanguinare Gesù. Invece quella roba mi si incollò al palato e non servì a nulla usare la lingua come un raschietto, dovetti aspettare che si sciogliesse, invadendomi la bocca con un’aroma appartenente a nessun sapore ma che comunque mi dava il volta stomaco.
Anche la festa a casa, a suo modo, fu un rito, un rito di stampo sociale ovviamente. Gli invitati vestivano tutti in modo elegante, i bambini venivano intrattenuti da due animatrici, mentre gli adulti prima mi si avvicinavano per farmi gli auguri poi andavano da mia madre, dedicandole molta più attenzione e convenevoli di quanti ne avessero avuti per me.
Solo nel periodo precedente al mio incontro col corpo di Cristo, i miei genitori spinsero affinché andassi in chiesa, e se la domenica mattina manifestavo il desiderio di voler restare a casa mi guardavano storto e mi obbligavano a vestirmi e ad incontrarmi col Signore. Avevo preso un impegno, il catechismo il sabato pomeriggio e, di conseguenza, la messa della domenica, e il mio venire meno non era in relazione al Dio di Abramo e di Mosè ma all’istituzione cattolica che di lì a qualche mese mi avrebbe comunicato. Come di un certificato di frequentazione ottenuto dopo aver seguito un qualsiasi corso, probabilmente di quel sacramento non me ne sarei fatto nulla ma poteva capitare che mi sarebbe potuto tornare utile.
Quando fu il momento di consegnare le bomboniere (un ciondolo d’argento per gli adulti e un giocattolino per i bambini), mia madre mi domandò: “Ma dov’è Carmine, non l’hai invitato?”
Mi sentii imbarazzato, guardai gli altri compagni di classe, nella speranza che non l’avessero sentita, e dissi: “Lui è evangelista, a queste cose non viene mai”. Mia madre sembrò crederci; era troppo indaffarata e la mia risposta si andò a mischiare a tutte le altre voci che affollavano il cortile. Avevo cambiato migliore amico da un pezzo.


sabato 9 giugno 2007

Apice









Forse noi viviamo troppo protesi verso un apice, dico noi che assorbiamo emozioni da mattina a sera, e di conseguenza non riusciamo mai a sentirci semplicemente contenti: noi dobbiamo essere o disperati, o al settimo cielo.






Nick Horby, Alta fedeltà

venerdì 8 giugno 2007

Non salti più con me



Non è la pioggia. Quella mi piace, eccome. C'è altro.
Non sono neppure lacrime. Giuro. Non lo dico per darmi il tono del grande uomo, quello duro che non si piega e non si spezza (io? macchè!). E' solo che è diverso. Più profondo. E' tipo una ferita, ma senza sangue. Una ferita che non fa male; al massimo pizzica un po'. Che, a dirla tutta, non dovrei neppure farci caso. Basta pensare ad altro: le telefonate, il blog, la chat, il romanzo di Fante sul comodino, lo studio (cazzo gli esami!), le squinzie che ci sono e non ci sono, gli amici, cose così. Ma succede che mi fermo e controllo. E la vedo. Oppure capita che mi guardo allo specchio (lo faccio raramente e quasi sempre è un trauma). Ecco, allora la vedo. Rossa, profonda. C'è quasi da avere paura, ma un po' ci sono abituato. Il problema è che non so cosa fare.
Penso ad a Debby che partirà e ad Alex che non torna più, a Santo perso nei corridoio di Medicina e che progetta il matrimonio; penso a Nadia che non sorride da un pezzo e che ha così tanti casini che la droga ormai non le basta più, a Mirko che ha un anno meno di me e deve discutere la tesi ad ottobre. A Fabio che non vedo da un pezzo, solo perchè ho commesso il crimine di avere più successo di lui; a Giusy che mi odia perchè succede così con le ex (ok, non sempre, ma qualche volta capita, no?). Penso a Massimiliano che non è neanche un amico ma sta lì con la sua arroganza che a volte fa prevalere l'odio sull'affetto; ad Antonio che non vedo perchè a volte capita che le persone si allontanino così, senza una precisa ragione. E poi c'è Diego con cui non ci si becca mai, Carmen che mi scrive che mi vuole bene (a cui non do mai la soddisfazione di un "anch'io"), Rosanna che è bellissima ma "la nostra America è uno scantinato dove scopiamo i nostri sogni che suonano, davvero suonano da dio, peccato che nessuno li ascolterà mai", ad Arcangelo che la sera trema se non beve, a Francesco che come teen-ager ormai è invecchiato e a Francesca che del porno si è stancata, ma la laurea è troppo lontana e comunque ce ne vuole da lì a guadagnare.
Ecco, penso a loro e penso ad altro e tutto si confonde.
Così vorrei trovare le battute, tornare a fare il giullare, il minchione, ma c'è questa ferita. E per quanto non faccia male, resta lì. Come a volersi far sempre ricordare.
Così tra una canzone dei Bee-hive e una bestemmia, tra un assolo di sinth e qualche sparata da cinico, tra una risata che fa sempre bene e un'ora programmata per essere stupidi, mi domando: stasera chi salta un po' con me?


giovedì 7 giugno 2007

Fede



Da piccolo andavo in chiesa. Ma quando congiungevo le mani per pregare, quando ripetevo le parole del prete o prestavo la mia voce ai canti sacri, lo facevo senza una vera e propria convinzione. Non mi importava che le mie parole potessero giungere al cielo, così come non avevo alcun interesse nel sentire di Cristo che si era immolato per il bene dell’umanità, stavo lì solo perché ci andavano tutti quelli della mia età e perché se non ci fossi andato avrei dovuto ascoltare il giorno seguente la maestra che mi domandava: “E tu, perché ieri non sei venuto alla messa?” L’istituzione scolastica si prendeva cura del mio spirito molto più di quanto non facessero i miei genitori, a cui non importava granché del mio credo. Certo, mi avevano battezzato e mi fecero fare la comunione, ma con uno spirito poco cristiano e molto borghese. “Mi sembrava giusto darti una religione” disse mia madre, quando all’età di vent’anni le chiesi il motivo di quella scelta. “Se poi te ne saresti voluto sbarazzare potevi farlo da solo, intanto io ti avevo dato una scelta”. Insomma, i miei genitori per niente cattolici avevano deciso di farmi questo regalo nell’eventualità che io sviluppassi la fede, nel caso in cui questo non fosse accaduto non ne avrei di certo risentito, un po’ d’acqua in testa per un non credente non è nulla di che; non sarebbe neppure un ricordo se non ci fossero le fotografie a testimoniarlo.
La cosa buffa, però, era che il mio migliore amico a quei tempi era un bambino di fede evangelica, con cui condividevo il banco, l’amore per Brenda di Beverly Hills e i fumetti degli X-man. Si chiamava Carmine, aveva i capelli biondi ad istrice (era l’unico della classe che se li modellasse col gel), gli occhi chiari ed una voce stridula, con la quale dava forma a parole di un’oscenità tale da costringere la maestra a cacciarlo dalla classe. Durante le lezioni venivamo spesso ripresi perché disattenti, ma se io al primo richiamo mi zittivo di colpo, candendo nella più vergognosa mortificazione, lui invece continuava e, al richiamo successivo, rispondeva a tono, finendo a fare compagnia al bidello nel corridoio.
L’atto più sovversivo che Carmine fece fu quello di chiedere alla maestra di saltare l’ora di religione; la cosa che allora mi colpì, suscitando in me una muta e sincera ammirazione, fu il fatto che la richiesta non fu portata avanti dalla madre o dal padre, ma da lui in persona. In terza elementare, circa a metà anno, si alzò e disse: “Maestra non ha senso che io segua questa lezione, io sono evangelista”. La maestra rimase di sasso a quelle parole, anche perché era stata proprio lei, giorni prima, a dire che i bambini non cattolici potevano esentarsi dall’ora di religione. Così, non sapendo come reagire, si limitò a rispondere: “Poi vediamo”. Ma Carmine si impuntò, sino a smadonnare quel tanto che gli servì ad essere cacciato dalla classe.
La settimana dopo Carmine riprese la sua protesta. Questa volta la maestra era preparata e gli rispose che la materia che affrontavano non era la religione cattolica, ma religione in genere. In effetti, il nostro libro di testo riportava una sommaria storia delle religioni, spiegandone le differenze e le peculiarità. “Non è vero” rispose lui. “Tu parli sempre di Gesù”. Il sorriso che la maestra aveva avuto sino a quel momento si spense di colpo. “Carmine” urlò. “Io lo so che a te non importa niente di niente della religione e che per te questo è solo un modo per saltare un’ora. Mi hai preso davvero per una rimbambita?” Questa volta il mio compagno di banco fu zittito, anche perché la maestra ci aveva preso in pieno: lui non stava rivendicando la sua fede, né provava un vero fastidio nell’ascoltare la storia del Nuovo Testamento, voleva solo svignarsela e andarsene liberamente in giro per la scuola.
Dato che Carmine era una frana in tutte le materie, la maestra decise che, invece di fare religione, durante quell’ora avrebbe fatto delle lezioni di recupero con un’altra maestra nella sala dei docenti. La notizia lo fece sbiancare, mentre fece scoppiare a ridere gli altri della classe.
Quando mia madre andava a parlare a scuola aveva sempre buone notizie su di me: un bravo bambino, educato, attento, diligente “solo che sta sempre vicino a Carmine, che non mi sembra una buona compagnia”. Mia madre non ci faceva caso, ero uno dei migliori della classe e questo era tutto ciò che contava per lei. Così, visto che non mi costrinse a cambiare banco, ci pensò la maestra. Un giorno arrivammo in classe e non trovammo più il nostro banco, in compenso c’era un banco monoposto di fianco alla cattedra e un altro attaccato ad un banco semplice. Tenendo l’evangelista dal carattere compromettente di fianco a sé, la maestra salvò la mia educazione che, chissà per quale miracolo, era riuscita a restare intatta per i due anni precedenti, e si flagellò tenendo al suo fianco l’unica spina della classe.
La cosa che più mi irritava erano i lunedì mattina, quando la maestra ci interrogava sulla predica ascoltata alla messa. Quando stavamo nello stesso banco Carmine si confondeva tra gli altri bambini, mentre il nuovo posto che occupava era come un mondo a se stante che non aveva niente a che vedere con il nostro. Il suo era un pianeta isolato da un sistema solare più vivo che mai, che vociava, strillava e rideva. In quei lunedì mattina la sua condizione era ancora più sottolineata. Raccontavamo il passo del vangelo che il prete aveva letto e lui guardava altrove, disinteressato, sino a quando la maestra non lo richiamava: “Ascolta, almeno impari qualcosa”. Era un diverso lui e da tale veniva trattato; anche gli altri bambini man mano cominciarono a prenderne le distanze, prima evitando di rivolgergli la parola, poi non invitandolo alle feste. Il fatto è che per i nostri compagni di classe la sua diversità consisteva unicamente nello stare in un banco isolato lontano dagli altri, come se fosse un membro aggiuntivo, uno che non aveva il diritto di stare lì e che era stato accettato per chissà quale grazia. Mentre per la maestra la sua diversità consisteva nell’essere un modello negativo per tutti noi, piccoli bimbi quasi perfetti, figli di famiglie per bene, che ci facevamo venire i lacrimoni agli occhi al primo accenno di rimprovero; così utilizzava la sua religione per farcelo percepire diverso, per l’appunto, come un mondo che non aveva niente a che fare col nostro sistema solare.
Giorni dopo il cambio di banco, Carmine mi disse: “Se lo sapevo mi stavo zitto e non dicevo niente”. Aveva un espressione distrutta, che non avevo mai visto. Feci cenno di si con la testa e, senza aprire bocca, mi allontanai di qualche passo per poi avvicinarmi ad un altro bambino. Non volevo che gli altri mi vedessero parlare con lui.

mercoledì 6 giugno 2007

martedì 5 giugno 2007

Ventenni



Diciamoci la verità: due sono le categorie trattate in questo periodo dai media, adolescenti e trentenni. Noi poveri ventenni siamo messi nel mezzo, usati a volte per fare numero, altre per dimostrare ciò che che i primi rischiano di diventare e che i secondi erano.

La verità è che non c'è molto da dire su di noi, che spesso di anni ce ne sentiamo trenta per davvero e magari vorremmo averne ancora 17, semmai per rifare tutto un po' meglio, magari godendolcela anche; noi che siamo cresciuti con Beverly Hills, Dawson's creek e O.C. (ebbene si, ce li siamo fatti proprio tutti!), troppo giovani per morire con Kurt Cobain e troppo vecchi per credere ancora in qualche cantante; noi che siamo cresciuti sulla punta del cazzo degli anni '90 e nel buco di culo di questo primo 2000, che abbiamo ingurgitato best company e Non è la rai; noi ancora fermi nell'aula del Brekfast club, perchè rintanarci negli anni '80 - chissà perchè - ci è sembrato naturale; noi cresciuti tra Taricone e Sailor Moon, che volevamo suonare nei Bee-Hive, che abbiamo visto solletico perchè Bonolis era già diventato una persona seria e Bim Bum Bam ormai scacava; noi che abbiamo consumato una prima volta chiusi in un cesso, oppure nel letto grande dei genitopri senza capire bene si ci piacesse o meno; noi che di questi vent'anni non sappiamo che farcene, ci guardiamo attorno e tutti sembrano troppo lontani da noi anche solo per poterli sfiorare. Noi che guardiamo in lontananza e corriamo verso un orizzonte che si allontana ad ogni passo che facciamo.

venerdì 1 giugno 2007

E se ti va male?

Non hai molta scelta: ti strappano da un qualche chissàdove per poi infilarti in un utero. Oppure, guardala così: queste stronze di molecole si potevano legare tra loro in un modo migliore piuttosto che darti questa forma fetale.
Ma ok, lasciamo stare, poteva andarti peggio.
La prima cosa che fai, vedendo la luce, è fottere tua madre all’inverso. Vedi, tutti quei casini tra padre e figlio per il predominio sulla madre nascono proprio per questo: tuo padre non l’ha mai fatta urlare così tanto; è normale che poi si risenta.
Ma andiamo avanti.
Dunque, come mondo ti è capitato la Terra, ok; come famiglia… bè, li vedi tu stesso.
Ti rendi conto?
Le scelte più importanti della tua vita non sono state affidate a te. Il mondo in cui ti trovi va in lento disfacimento, mentre le opzioni parentali nelle quali puoi schizzare, neanche fossi un proiettile ad una partita di roulette russa, sono: famiglia bene, criminale, ricca, povera, mediamente borghese, alto borghese, legata alla politica, alla P2, ad un consorzio mafioso o alla federcommercio.
Tuo padre può essere un cornuto, un puttaniere, un imbecille, un idealista, un cinico, un ignorante, uno che se ne frega, uno che non ti ama, uno che ti ama così tanto da farti culo, uno che prega tutte le sere, uno che vota AN, uno che alle scorse elezioni ha fatto salire Vladimir Luxuria, uno che strilla tutto il tempo, che lavora tutto il giorno, che a casa non ci sta mai, o ci sta sempre perché è disoccupato, o perché di trovarsi un lavoro non gli passa per l’anticamera del cervello.
Tua madre può essere una serva, una donna in carriera, una puttana, una vergine martire votata al sacro idillio familiare, una segretaria di partito, una gioielliera con la pistola sotto il bancone, ti può abbracciare forte quando stai male, può fregarsene perché sì, ok stai piangendo, capita a tutti e poi passa sempre.
E poi ci sono i fratelli e le sorelle: confidenti o arpie. Ci sono zii e zie e nonne e nonni. E tu puoi odiarli, puoi amarli, puoi dipendere da loro, puoi rinnegarli, puoi farci quello che diavolo ti pare, ma nulla può cambiare che ogni atomo è stato replicato da loro. Niente può togliere che il tuo organismo, il tuo cervello, la tua anima altro non è che un mix shakerato a dovere con il meglio il peggio o il mediocre che è in loro.
Quando ti va di culo c’è tutto da guadagnare, ma se ti va male… ti rendi conto del casino in cui sei finito?