giovedì 20 dicembre 2007

La donna della mia vita



Ho decisamente trovato la donna della mia vita.
Mi sa che ora devo darmi da fare per organizzare il matrimonio.

sabato 21 luglio 2007

Lithium



Nell’ultimo anno delle medie la storia era questa: o eri con gli Oasis, o con i Nirvana. Se eri con gli Oasis, avevi un punto in comune con le ragazze. Se eri con i Nirvana le uniche ragazze con cui avresti potuto avere dei punti in comune erano delle superiori e, quindi, comunque, non ti avrebbero cagato a priori.

C’erano anche i Guns’n’roses, che venivano ascoltati da quelle ragazze che da lì a un anno, massimo due, avrebbero portato un lutto in differita per la morte di Kurt Cobain.

Chi ascoltava i Nirvana veniva chiamato: metallaro, satanista, blasfemo, pazzo, uno che inizia a capire qualcosa di musica (ma questo era un giudizio molto di parte, e veniva da ragazzi che non appartenevano alla scuola, quindi privi di spessore sociale). Sull’album i testi della canzoni non c’erano, e anche se ci fossero stati non credo che saremmo riusciti a tradurli. E, se anche avessimo avuto questa facoltà, probabilmente ci sarebbe mancata la voglia per farlo.

Un paio di volte ci convincemmo davvero che Kurt cantasse versetti demoniaci. E questo ci faceva sentire addosso un’aria mistica, pericolosa e ribelle. Ma, sfortunatamente, solo noi eravamo in grado di percepire quell’aura.

Ascoltare i Nirvana, o almeno ascoltare i Nirvana alle scuole medie, ti faceva sentire diverso dagli altri. Aveva il potere di farti essere sicuro mentre dicevi: “Quei tipi non capiscono un cazzo di niente”. Specialmente quando i tipi in questione non fanno altro che prenderti per il culo tutta la giornata.

Ascoltare i Nirvana alle medie ti faceva sentire più grande di sei mesi, a volte anche di un anno, ma ti faceva stare anche un po’ male, senza capire il perché.

Questo l’avresti capito alle superiori, quando l’inglese lo conoscevi appena un po’ meglio, ma la voglia di sapere il significato di ognuna di quelle parole era più forte di qualunque pigrizia. Non dimenticherò mai quella sera, a casa mia, nella mia stanza, io Alex e Santo che scrivevamo su dei fogli bianchi la nostra traduzione di quelle canzoni. Quando le rileggemmo non dicemmo una parola.

Tranne Alex, che dopo un po’, esclamò: “Ragazzi, adesso sono cazzi belli per tutti!”


giovedì 12 luglio 2007

Evoluzione e soppressione



Il Terzo Mondo verrà soppresso dall’Occidente, è il normale processo della natura: la razza più forte che sopravvive alla più debole. La dura legge del darwinismo. Certo, quando il naturalista inglese teorizzò L’origine della specie non c’erano ancora gli elementi necessari per comprendere che l’uomo, a differenza degli altri animali, ha smesso di modificare il proprio corpo rispetto all’ambiente naturale ed è passato al mutamento di quest’ultimo, e alla costruzione di protesi tecnologiche e di elementi prostetici in grado di attribuire nuovi significati e nuovi capacità al suo organismo. L’evoluzione umana, così, non è più un evoluzione genetica, basata sugli invisibili filamenti del DNA, ma avviene al di fuori, per connettersi e diventare tutt’uno con il corpo, dando vita ad una nuova specie, l’uomo tecnocrate. L’uomo tecnocrate è perfettamente inserito in un contesto di macchine e computer che sa usare allo stesso modo in cui il primate era in grado di afferrare oggetti e utilizzarli come armi da scagliare contro i nemici e contro le prede. A tutto ciò l’uomo del Terzo Mondo non è arrivato. Le cause sono varie e inferiscono condizioni storiche e politiche, che vanno dalla loro posizione geografica (distante da civiltà più avanzate in grado di poterli far progredire) al colonialismo e al post colonialismo, in cui il futuro uomo tecnocrate, trovatosi di fronte alla scelta di poter o far evolvere queste popolazioni o soggiogarle, ha scelto la seconda ipotesi, dando il via alla soppressione della specie. Non dico che la cosa è giusta o sbagliata, è semplicemente naturale. La mancata evoluzione tecnologica (col quale l’uomo tecnocrate è entrato in simbiosi) non è una causa da attribuire a queste popolazione, anzi è stata causa dell’Occidente, che sin da allora ha esercitato la sua pressione di civiltà più forte. Questo perché oggi, nell’affrontare la faccenda, non possiamo fare a meno di tenere a mente che le varie razze umane (che hanno peculiarità diverse e diverse conformazioni fisiche) non sono più distinte e separate, ma si sono unite in amalgami razziali e non possono essere più distinte per specie, bensì per civiltà. La civiltà Occidentale oggi è la più forte e, seguendo la natura – e non quella teorizzazione cattolica e giusnaturalista che chiamiamo natura umana – sopprimerà il Terzo Mondo, per affermare la sua potenza e per appropriarsi delle risorse che le permetteranno di evolversi ulteriormente.

martedì 26 giugno 2007

Luogo comune del quarantenne



Quindicimila giorni secchi son passati,
quindicimila occasioni già sfumate,
quindicimila soli invano nati,
ora ed ora contati
in questo austero, ma grottesco gesto
di dar la corda a orologi finti
per cercare, negli anni trascurati,
la pazienza di vivere il resto.

José Saramago

venerdì 22 giugno 2007

Isolazionismi



La voglia è quella di lasciare tutto, riempire lo zaino di libri (quelli di studio, un paio di saggi, dei romanzi usciti da poco e qualche cosa di vecchio trovato sulle bancarelle in volume della Newton), comprarmi un i-pod, stivarlo di mp3 e partire. Non importa altro. Ho bisogno di restare solo, isolarmi dal mondo e osservarlo con la testa martellata dai fruscii elettronici di Murcof, dalle dissonanza dei Faust e dall'epico gelo dei Sigur Ros. La musica ha uno strano potere: riesce a dare una consistenza diversa alla realtà che mi si para davanti, la deforma lasciandola uguale a se stessa, come se il mutamento che opera non sia superficiale, ma intacchi la sua essenza più profonda; così mentre tutto scorre come al solito, mentre ogni singolo individuo è occupato nei suoi da fare, attraversando strade, entrando e uscendo da edifici vari, ho l'impressione che sia diverso, più meccanico, una specie di alieno perso nel nulla (come me). Come nel film L'invasione degli ultracorpi, in cui le persone restano uguali, per quanto siano state modificate dagli alieni che ne hanno invaso gli organismi, e continuano a fare ciò che fanno da una vita, ma con un senso si estranietà che solo chi viene da un altro mondo può provare.
La meta è Cetraro: un paesino della Calabria (saudita), dove i miei ogni hanno fittano una villetta che da sul mare. Passo il tempo leggendo, facedo lughe camminate e, quando il caldo diventa troppo, vado a mare, dedicandomi a nuotate che si interrompono solo quando ho l'impressione di cedere da un momento all'altro. Mi piace sentire l'acqua che mi avvolge, fendendola con bracciate violente, come se dovessi chiavere l'intera superficie azzurra col corpo intero; mi piace sentire i muscoli contrarsi e rilassarsi e poi lasciarmi cullare dalle onde a riva, osservando i bagnanti chiassosi, immersi nella loro vita fatta di risate e urla, mentre dentro di me il silenzio è fragoroso come non mai.


giovedì 21 giugno 2007

La merce invenduta piange



Io se fossi un pannolino avrei bisogno della merda di un

Bambino per esistere
Perché la merce invenduta piange
E non capirei perché un bambino nella sua vita caga
Migliaia di pannolini ma non me
Che sono un pannolino normale come gli altri
Con il mio codice a barre normale
Sulla scatola.

E se fossi uno di quei cosi con la neve e con padre Pio
Penserei di essere meglio di un soprammobile di Giò
Pomodoro perché
Tutte le merci sono uguali di fronte a Dio
E starei male a essere messo in vendita
Alla stazione Centrale di Milano
In un angolino della vetrina del tabaccaio
Tra un cazzo finto e un portasigarette di plastica con lo
Stemma del Milan
Languendo
Per giornate deriso
Perché la merce invenduta piange.

Io conosco il dolore delle pile dei sacchi della spazzatura
Nascosti dietro le scope
Nel reparto casalinghi
Del supermercato, sacchi della spazzatura
Verdi un tempo imposti per la raccolta differenziata dal
Comune e adesso
Negletti e impolverati, decaduti
Plastica più sola di un'anima a marcire

Io conosco il dolore della "gelatina per dolci
Già detta colla di pesce" sommersa
Sa bustine di lieviti Bertolini e sacchetti di zucchero in Scaglie per le guarnizioni
Lo conosco e se io fossi lei mi chiederei perché
Sono "gelatina per dolci già detta colla di pesce"
E non, ad esempio, una fulgida appetitosa scatola
Di mezzo chilo di mezze penne Barilla,
di quelle che si vendono a migliaia
nei supermercati di tutto il mondo.
Io penserei questo tutto il giorno e continuerei a piangere
Perché la merce invenduta piange
E il suo dolore è tanto simile al nostro
Biologico stare sul mercato fino a che c'è domanda
Fino a che l'articolo che siamo non deperisce

Come un diplomato di 52 anni alla ricerca del primo lavoro
Come un corridore automobilistico amputato
Come una ragazza in Giappone
Che a 25 anni nessuno l'ha sposata
Sugli scaffali della vita raggelata miscela
Leone scaduta nel reparto
Caffè o sugo di cinghiale con l'etichettta scollata

Scatole di sale dietetico schiacciata

di Aldo Nove



martedì 19 giugno 2007

Autunno



Il 2000 ha questa peculiarità: ogni giorno sembra un giorno autunnale. Non parlo di quell'autunno ben definito, dalla foglie che cadono e rendono la strada dello stesso colore del tramonto, ma di quello che ci fa dire "Le mezze stagioni non esistono più", e alterna l'afa ad una pioggia che non è fredda e non è forte, ma che comunque costringe a restare chiusi a casa.

Aldo Nove ha scritto che negli anni '80 è stato sempre inverno e Tommaso Labranca ha agginto: "Anche se non era inverno, chi amava l'inverno poteva riuscirlo a scorgere ovunque". Per me l'inverno sono stati gli anni '90. Ma se l'inverno di un varesino e di un milanese è caratterizzato dal biancodalla neve, l'inverno di uno che vive a Napoli altro non è che una notte sporca che arriva prima del dovuto. L'inverno di un ragazzo vissuto a Napoli è fatto di pioggia che scroscia sino ad aprire le strade, facendo intasare le arterie della città di un traffico di auto strombazzanti, che fremono nei movimenti sincopati dei tergicristalli.
Gli anni '90 sono stati un inverno anche emotivo, ma a questi non è succeduta la primavera, ma un autunno confuso e mite come tutte quelle stagioni che sembrano promettere tanto e alla fine sono solo un susseguirsi di giorni gli uni uguali agli altri.
Durante quell'inverno eravamo convinti che le nuvole si sarebbero diradate, mostrando un cielo che ci avrebbe allettato con mille promesse diverse. Invece il 2000 è cominciato col 11 settembre, con l'immagine del primo aereo che esplodeva nella prima torre, e del secondo che andava a schiantarsi contro l'altra. Il 2000 è cominciato con il loop delle immagini a rallentatore dell'attentato terroristico contro l'America, che si è impresso così a fondo della nostra memoria che, quando lo riportiamo alla mente, non possiamo fare a meno di vedere i due boing andare contro le torri gemelle ad una velocità tale da farci credere che da un momento all'altro questi imponenti edifici di cemento e acciaio possano sradicarsi dalle loro fondamenta ed evitare l'attacco. Dopo l'esplosione però i due grattacieli tornano illesi e compare di nuovo il primo aereo. Come nella teoria dell'eterno ritorno di Nietzsche, ogni cosa viene rivvissuta in maniera identica, senza la possibilità di una sola variazione, senza la stupida illusione di riuscire a cambiare le cose.
Questo è l'autunno del 2000, i colori bruni non ricordano le foglie secche, ma le immagini di blob in cui la percezione visiva viene distorta apposta. Non c'è nulla di definito: nelle notizie al telegiornale, nell'iperestesia delle informazioni che gira su internet, nei blog cantilentanti o deprimenti (e quasi sempre autocelebrativi) che ci inonandano di nozioni inutili che spesso si sedimentano nella nostra coscienza, cristallizzando quella che può essere definita la Filosofia del Nulla e del Superluo.
E noi altro non siamo che specchi viventi di questa condizione. Fruitori - consapevoli o inconsapevoli - di una mediaticità per nulla medianica, consumatori - attivi o passivi - di prodotti assurti a ruolo di status simbol o di lifestyle, che con la loro prosteticità illudono di mutare il nostro stesso senso, lasciando però inalterata forma e pensiero, e riducendosi unicamente ad una serie di costose connessioni, in grado di metterci in contatto con il resto del mondo. Ma la finalità di questa comunicazione altro non è che una comunicazione fine a se stessa, fatta di significanti e non di significati, che rivela una globalità vuota sotto lo strato di accessori superflui.
Ecco l'autunno, che invece di durare una sola stagione si protrae per un anno (per dieci anni), appiattendo, rendendo ogni cosa dello stesso e identico colore sfocato, ripetendo i suoi loop di eventi, e lasciando immutano il suo clima che non è nè caldo, nè freddo, che fa scorgere il sole senza però farne sentire il calore


giovedì 14 giugno 2007

Lisbona



Lisbona è fatta di salite e discese che si percorrono con ripide scale capaci di lasciare senza fiato. Ricordo che quando andavamo a fare la spesa, la cosa più massacrante era comprare l'acqua per nove persone, caricarsela sulle spalle e percorrere quelle rampe che mettevano a dura prova il nostro fisico già abbastanza provato dalle ore piccole e dai i postumi di sbronza.

Abitavamo vicino al Barrio alto, un quartiere storico formato da vicoli che si intrecciano, creando un reticolato di strade le une uguali alle altre. Ogni centro metri c'è un locale e ovunque una folla di ragazzi che bevono e ridono e si baciano. Mentre l'attraversavo avevo l'impressione di non aver mai visto ragazze e ragazzi più belli. Avevano tutti qualcosa negli occhi e le labbra contratte in un sorriso, mentre il corpo era sudato e si lasciava raffraddare la lunghe sorsate di birra a basso costo, che si alternava con shot di rhum o vodka.
La prima sera lì io e Debby ci muovevamo frenetici, ricordando alcuni articoli di Tondelli che raccontavano di posti come quello, in cui si riusciva a respirare un'aria di comunione e di amicizia mai annusata prima.
Per conoscere qualcuno bastava semplicemente offrirgli da bere e poi cominciare a parlare, in un incontro di lingue diverse che abbozzavano parole in inglese e davano forma a discorsi che si andavano a mischiare a quel vociare confuso che dava forma a tutta la notte.

La mattina era dura svegliarsi, lavarsi e prima dell'una non riuscivamo mai ad uscire di casa, lasciando in sospeso tutte le pulizie che venivano rimandate a poi. Anche se quando arrivava il "poi" la voglia mancava e ci ritrovavamo a ballare seminudi per casa, mandando giù sorsate di vino, sculettando al ritmo di Karma Chameleon, oppure cenando sul terrazzo che dominava metà della città e ci permetteva di osservare il sole che sembrava sparire dietro il castello in lontananza, mentre le luci lentamente si accendevano, come lucciole immobili che formavano costellazioni di terra.

La mattina c'era la lotta per riuscire a mangiare gli M&M's avanzati dalla sera prima e Sybil - che era l'ultima a lavarsi - si ritrovava sempre con pacco vuoto e s'incazzava non poco perchè che diavolo, almeno un paio di quelle cose gliele potevamo pure conservare.

Di Lisbona ricordo questa cosa: sembrava che ogni strada, ogni persona, ogni palazzo e tutto ciò in cui ci imbattevamo fosse a misura nostra. Era come una città partorita dai nostri sogni, dalle nostre aspettative che in fondo non erano chissà quanto pretenziose: volevamo conoscerci, stare insieme, ridere per delle stronzate e stare bene senza renderci conto del perche. Insomma, tutto era perfetto. Scale escluse, ovviamente.

Una sera ci ritrovammo in un locale gay. Ci portò uno spagnolo conosciuto un paio di giorni prima. "C'è della buona musica elettronica" si giustificò, quando io Gabriele e Paolo facemmo la faccia storta. Provai a ballare nella pista da ballo, incollato a Debborah come un amante passionale (e forse pure un po' morboso), ma dopo neanche un minuto: "Debby, mi hanno toccato il sedere... Debby, mi hanno accarezzato il collo... Debby, mi hanno maniato il pacco, andiamo via!"
Restammo lì a lungo, per poi finire in un'altra strada, a terra come tanti altri, prendendo in giro una ragazza conosciuta poche ore prima, tutta presa dallo scaricare un ragazzo con cui aveva avuto una storia la sera precedente e che in risposta piangeva.

Ricordo quella settimana come l'ultimo capitolo di amicizie poi naufragate, o semplicemente consumate (come succede a tante altre cose). Ricordo Debborah in lacrime in una notte passata sull'amaca, con le cuffie che le sparavano a tutto volule The best of you; un pianto di gioia, mi assicurò lei ed io non potei fare a meno di pensare che tra la felicità e la disperazione c'è una linea così sottile che è diffice vederla bene. Ricordo una mattina in cui io e Gabriele tornammo all'alba e trovammo Jerry, un capoverdiamo dal fisico perfetto che aveva passato la notte con una delle ragazze e poi era stato esialiato su quel divano che era troppo piccolo e lo faceva dormire rannicchiato, quasi come un feto. Ricordo i miei capelli blu cadere a ciocche sotto i colpi di macchinetta che Paolo passava sulla mia testa, perchè ormai si era fatto il momento di tornare a casa, allo studio, al lavoro e che credibilità può avere un giornalista con un acconciatura del genere?


Ricordo che in quella settimana Lisbona si è impressa dentro di me come solo Londra è riuscita a fare, ma in un modo completamente diverso. Ricordo che in quella settimana con Debby, Carmen, Gabriele, Paolo e Angela mi sono sentito felice di una felicità così dolce e serena da illudermi di essere di grado di farla durare per sempre.

mercoledì 13 giugno 2007

Ok, si ricomincia!



intanto la mia vita fugge in diagonale
ritorna prepotentemente un desiderio morale
Franco Battiato


Periodo strano questo. Se da un lato l'arrivo dell'estate impone quasi un libertinaggio sfrenato, titillando gli ormoni e accaldandoli più del dovuto, dall'altro lato c'è che in me si è risvegliato una sorta di desiderio d'altro, che mi fa vedere avventure e aventurette come qualcosa di noioso. Sarà che le ultime esperienze che ho avuto non sono state delle migliori e questo perchè, prima di tutto, stimavo queste giovani pulezzelle della stessa stima che si può provare per delle buste di plastica. La domanda, quindi, sorge ovvia: perchè le frequentavi? Semplice: per quel machistico e squallido senso di dover dimostrare il proprio valore col numero di compagne di talamo. E, per quanto io sia il primo a non credere in queste cose, non posso fare a meno di subirne la pressione. Ma adesso è diverso.
Quando parlo di bisogno d'altro non mi riferisco al desiderio di una relazione fissa, che ricalchi il modello tanto caro ai conservatori, quanto ad un bisogno di condivisione e di passionalità. Ma questo desiderio non riguarda solo la sfera erotica, bensì l'intero universo emotivo. Credo che negli ultimi mesi mi sono un po' cristallizzato su me stesso, senza cercare niente di nuovo, accontendandomi delle solite conoscenze, questo sia per un timore di nuovi confronti, sia per quella solita insicurezza che mi porto dietro da sempre (e che lentamente sto cercando di sconfiggere).
Così malgrado l'estate - con i vestiti scollati e i corpi sudati - imponga di far l'amore da Trieste in giù (come insegna l'eccellente geografia sessuale tracciata da Raffaella Carrà), di salterllare da una discoteca all'altra e di dedicarsi alla propria abbronzatura, ciò che io ho voglia di fare è coltivare i miei interessi: conoscere gente, parlare, leggere, scrivere, apprendere nuovi punti di vista, litigare, curare un po' quella parte di me stesso che ho lasciato stare in cambio di una leggerezza che ormai mi ha riempito. Ho bisogno di nuovi incontri, di nuove esperienze, di nuove persone; ho bisogno di ricominciare a crescere.


lunedì 11 giugno 2007

Cyberdress



La società cyborg si estende entro i confini del capitalismo multinazionale, dal Giappone all'Europa al Nord America alle ènclaves più ricche del secondo e terzo mondo, e così fa la soggettività cyborg.
La soggettività cyborg è presente ovunque gli indivdui abbiano accesso all'interfaccia di quell'apparato complesso che lega fra loro macchine/schermi/pc/modem/fax/satelliti/televsioni via cavo/telefoni celluari ecc. del tardo capitalismo. In queste società ad alto potenziale tecnologico non solo siamo avvolti un una "meccanosfera" che potezia ed estende la nostra attività sensomotoria, ma siamo anche immersi in uno spazio mediatico e cibernetico che avviluppa i nostri corpi in quasi tutti i momenti dell'esistenza e a un livello quantitativo e qualitativo che non ha precedenti nella storia umana. Questa tecnologia è descritta da alcuni come un sistema nervoso esterno collegato a noi tramite una variertà di apparati, dispositivi, microconnessioni. Le immagini cruciali in questo genere di connessioni sono quelle delle protesi e dell'interfaccia, che a loro volta generano la visione di una soggettività "prostetica" e di un corpo "cablato".

Alessandro Gomarasca


La metafora del vestiario per designare l'interfaccia fra sé e tecnosfera implica che la corporeità è stata rivoltata dal dentro al fuori, proiettata verso la superficie dove l'esperienza tecnologica è stata trasformata in un ornamento che inscrive il corpo di nuovi significati.

Figueroa Sarriera

domenica 10 giugno 2007

Fede (2)



“La prima comunione, invece, te l’ho fatta fare perché la facevano tutti. Sei stato tu ad insistere ‘mamma ma io la comunione quando la faccio? ma io la comunione quando la faccio?’ ed io te l’ho fatta fare”. I discorsi sulla mia educazione religiosa non piacevano molto a mia madre, anche perché mettevano in discussione il suo operato di genitore, privo della sicurezza per poter affermare che il modo in cui aveva tirato su il figlio fosse il migliore. A dirla tutta non so come sono venuto su, ma credo che per il mio carattere e per il suo non poteva fare di meglio. Certo, in qualche punto qua e là mi ha anche incasinato la vita alla grande, ma credo che anche questo sia uno dei doveri dei genitori. E poi, a pensarci bene, meglio essere incasinati dalla madre, con la quale si ha un rapporto obbligato, piuttosto che da qualunque altra persona scelta da noi; almeno per gli anni a venire possiamo prendercela con loro, piuttosto che darci degli stupidi per aver concesso ad un estraneo la possibilità di renderci la vita un inferno.
Insomma, anche la prima comunione non aveva un bel niente di spirituale, era una semplice scusa per fare una festa che mi avrebbe fruttato un bel po’ di regali. Per l’occasione mia madre ripulì il cortile sotto casa, sino ad allora usato unicamente come parcheggio, lo abbellì con festoni, piante e tavoli colorati. Io invitai tutti i miei compagni di classe e lei invitò i parenti e gli amici di famiglia. I miei zii mi regalarono una stampante per il computer (che non usai mai), i miei nonni i soldi, mentre tutti gli altri una sfilza di Swach e di catenine d’oro.
Il rito religioso si tenne in una chiesa affollata di genitori ben vestiti, che facevano scattare le loro macchine fotografiche per immortalare i figli vestiti di bianco e che stringevano tra le mani un giglio. Noi bambini eravamo terrorizzati, un po’ perché tutta quella gente ci metteva in imbarazzo, e un po’ perché durante il catechismo ci avevano raccontato la storia di un bimbo che quando aveva preso un ostia l’aveva spezzata, facendone fuoriuscire il sangue di Gesù. Così inciampavamo e più che reggere con passione il giglio lo brandivamo come fosse una spada, ci guardavamo attorno con un misto di vanità e timore, e attraversavamo la navata centrale con un ansia mai provata prima. Quando fu il mio turno di prendere l’ostia chiusi gli occhi per la paura che potessi spezzarla, facendo così sanguinare Gesù. Invece quella roba mi si incollò al palato e non servì a nulla usare la lingua come un raschietto, dovetti aspettare che si sciogliesse, invadendomi la bocca con un’aroma appartenente a nessun sapore ma che comunque mi dava il volta stomaco.
Anche la festa a casa, a suo modo, fu un rito, un rito di stampo sociale ovviamente. Gli invitati vestivano tutti in modo elegante, i bambini venivano intrattenuti da due animatrici, mentre gli adulti prima mi si avvicinavano per farmi gli auguri poi andavano da mia madre, dedicandole molta più attenzione e convenevoli di quanti ne avessero avuti per me.
Solo nel periodo precedente al mio incontro col corpo di Cristo, i miei genitori spinsero affinché andassi in chiesa, e se la domenica mattina manifestavo il desiderio di voler restare a casa mi guardavano storto e mi obbligavano a vestirmi e ad incontrarmi col Signore. Avevo preso un impegno, il catechismo il sabato pomeriggio e, di conseguenza, la messa della domenica, e il mio venire meno non era in relazione al Dio di Abramo e di Mosè ma all’istituzione cattolica che di lì a qualche mese mi avrebbe comunicato. Come di un certificato di frequentazione ottenuto dopo aver seguito un qualsiasi corso, probabilmente di quel sacramento non me ne sarei fatto nulla ma poteva capitare che mi sarebbe potuto tornare utile.
Quando fu il momento di consegnare le bomboniere (un ciondolo d’argento per gli adulti e un giocattolino per i bambini), mia madre mi domandò: “Ma dov’è Carmine, non l’hai invitato?”
Mi sentii imbarazzato, guardai gli altri compagni di classe, nella speranza che non l’avessero sentita, e dissi: “Lui è evangelista, a queste cose non viene mai”. Mia madre sembrò crederci; era troppo indaffarata e la mia risposta si andò a mischiare a tutte le altre voci che affollavano il cortile. Avevo cambiato migliore amico da un pezzo.


sabato 9 giugno 2007

Apice









Forse noi viviamo troppo protesi verso un apice, dico noi che assorbiamo emozioni da mattina a sera, e di conseguenza non riusciamo mai a sentirci semplicemente contenti: noi dobbiamo essere o disperati, o al settimo cielo.






Nick Horby, Alta fedeltà

venerdì 8 giugno 2007

Non salti più con me



Non è la pioggia. Quella mi piace, eccome. C'è altro.
Non sono neppure lacrime. Giuro. Non lo dico per darmi il tono del grande uomo, quello duro che non si piega e non si spezza (io? macchè!). E' solo che è diverso. Più profondo. E' tipo una ferita, ma senza sangue. Una ferita che non fa male; al massimo pizzica un po'. Che, a dirla tutta, non dovrei neppure farci caso. Basta pensare ad altro: le telefonate, il blog, la chat, il romanzo di Fante sul comodino, lo studio (cazzo gli esami!), le squinzie che ci sono e non ci sono, gli amici, cose così. Ma succede che mi fermo e controllo. E la vedo. Oppure capita che mi guardo allo specchio (lo faccio raramente e quasi sempre è un trauma). Ecco, allora la vedo. Rossa, profonda. C'è quasi da avere paura, ma un po' ci sono abituato. Il problema è che non so cosa fare.
Penso ad a Debby che partirà e ad Alex che non torna più, a Santo perso nei corridoio di Medicina e che progetta il matrimonio; penso a Nadia che non sorride da un pezzo e che ha così tanti casini che la droga ormai non le basta più, a Mirko che ha un anno meno di me e deve discutere la tesi ad ottobre. A Fabio che non vedo da un pezzo, solo perchè ho commesso il crimine di avere più successo di lui; a Giusy che mi odia perchè succede così con le ex (ok, non sempre, ma qualche volta capita, no?). Penso a Massimiliano che non è neanche un amico ma sta lì con la sua arroganza che a volte fa prevalere l'odio sull'affetto; ad Antonio che non vedo perchè a volte capita che le persone si allontanino così, senza una precisa ragione. E poi c'è Diego con cui non ci si becca mai, Carmen che mi scrive che mi vuole bene (a cui non do mai la soddisfazione di un "anch'io"), Rosanna che è bellissima ma "la nostra America è uno scantinato dove scopiamo i nostri sogni che suonano, davvero suonano da dio, peccato che nessuno li ascolterà mai", ad Arcangelo che la sera trema se non beve, a Francesco che come teen-ager ormai è invecchiato e a Francesca che del porno si è stancata, ma la laurea è troppo lontana e comunque ce ne vuole da lì a guadagnare.
Ecco, penso a loro e penso ad altro e tutto si confonde.
Così vorrei trovare le battute, tornare a fare il giullare, il minchione, ma c'è questa ferita. E per quanto non faccia male, resta lì. Come a volersi far sempre ricordare.
Così tra una canzone dei Bee-hive e una bestemmia, tra un assolo di sinth e qualche sparata da cinico, tra una risata che fa sempre bene e un'ora programmata per essere stupidi, mi domando: stasera chi salta un po' con me?


giovedì 7 giugno 2007

Fede



Da piccolo andavo in chiesa. Ma quando congiungevo le mani per pregare, quando ripetevo le parole del prete o prestavo la mia voce ai canti sacri, lo facevo senza una vera e propria convinzione. Non mi importava che le mie parole potessero giungere al cielo, così come non avevo alcun interesse nel sentire di Cristo che si era immolato per il bene dell’umanità, stavo lì solo perché ci andavano tutti quelli della mia età e perché se non ci fossi andato avrei dovuto ascoltare il giorno seguente la maestra che mi domandava: “E tu, perché ieri non sei venuto alla messa?” L’istituzione scolastica si prendeva cura del mio spirito molto più di quanto non facessero i miei genitori, a cui non importava granché del mio credo. Certo, mi avevano battezzato e mi fecero fare la comunione, ma con uno spirito poco cristiano e molto borghese. “Mi sembrava giusto darti una religione” disse mia madre, quando all’età di vent’anni le chiesi il motivo di quella scelta. “Se poi te ne saresti voluto sbarazzare potevi farlo da solo, intanto io ti avevo dato una scelta”. Insomma, i miei genitori per niente cattolici avevano deciso di farmi questo regalo nell’eventualità che io sviluppassi la fede, nel caso in cui questo non fosse accaduto non ne avrei di certo risentito, un po’ d’acqua in testa per un non credente non è nulla di che; non sarebbe neppure un ricordo se non ci fossero le fotografie a testimoniarlo.
La cosa buffa, però, era che il mio migliore amico a quei tempi era un bambino di fede evangelica, con cui condividevo il banco, l’amore per Brenda di Beverly Hills e i fumetti degli X-man. Si chiamava Carmine, aveva i capelli biondi ad istrice (era l’unico della classe che se li modellasse col gel), gli occhi chiari ed una voce stridula, con la quale dava forma a parole di un’oscenità tale da costringere la maestra a cacciarlo dalla classe. Durante le lezioni venivamo spesso ripresi perché disattenti, ma se io al primo richiamo mi zittivo di colpo, candendo nella più vergognosa mortificazione, lui invece continuava e, al richiamo successivo, rispondeva a tono, finendo a fare compagnia al bidello nel corridoio.
L’atto più sovversivo che Carmine fece fu quello di chiedere alla maestra di saltare l’ora di religione; la cosa che allora mi colpì, suscitando in me una muta e sincera ammirazione, fu il fatto che la richiesta non fu portata avanti dalla madre o dal padre, ma da lui in persona. In terza elementare, circa a metà anno, si alzò e disse: “Maestra non ha senso che io segua questa lezione, io sono evangelista”. La maestra rimase di sasso a quelle parole, anche perché era stata proprio lei, giorni prima, a dire che i bambini non cattolici potevano esentarsi dall’ora di religione. Così, non sapendo come reagire, si limitò a rispondere: “Poi vediamo”. Ma Carmine si impuntò, sino a smadonnare quel tanto che gli servì ad essere cacciato dalla classe.
La settimana dopo Carmine riprese la sua protesta. Questa volta la maestra era preparata e gli rispose che la materia che affrontavano non era la religione cattolica, ma religione in genere. In effetti, il nostro libro di testo riportava una sommaria storia delle religioni, spiegandone le differenze e le peculiarità. “Non è vero” rispose lui. “Tu parli sempre di Gesù”. Il sorriso che la maestra aveva avuto sino a quel momento si spense di colpo. “Carmine” urlò. “Io lo so che a te non importa niente di niente della religione e che per te questo è solo un modo per saltare un’ora. Mi hai preso davvero per una rimbambita?” Questa volta il mio compagno di banco fu zittito, anche perché la maestra ci aveva preso in pieno: lui non stava rivendicando la sua fede, né provava un vero fastidio nell’ascoltare la storia del Nuovo Testamento, voleva solo svignarsela e andarsene liberamente in giro per la scuola.
Dato che Carmine era una frana in tutte le materie, la maestra decise che, invece di fare religione, durante quell’ora avrebbe fatto delle lezioni di recupero con un’altra maestra nella sala dei docenti. La notizia lo fece sbiancare, mentre fece scoppiare a ridere gli altri della classe.
Quando mia madre andava a parlare a scuola aveva sempre buone notizie su di me: un bravo bambino, educato, attento, diligente “solo che sta sempre vicino a Carmine, che non mi sembra una buona compagnia”. Mia madre non ci faceva caso, ero uno dei migliori della classe e questo era tutto ciò che contava per lei. Così, visto che non mi costrinse a cambiare banco, ci pensò la maestra. Un giorno arrivammo in classe e non trovammo più il nostro banco, in compenso c’era un banco monoposto di fianco alla cattedra e un altro attaccato ad un banco semplice. Tenendo l’evangelista dal carattere compromettente di fianco a sé, la maestra salvò la mia educazione che, chissà per quale miracolo, era riuscita a restare intatta per i due anni precedenti, e si flagellò tenendo al suo fianco l’unica spina della classe.
La cosa che più mi irritava erano i lunedì mattina, quando la maestra ci interrogava sulla predica ascoltata alla messa. Quando stavamo nello stesso banco Carmine si confondeva tra gli altri bambini, mentre il nuovo posto che occupava era come un mondo a se stante che non aveva niente a che vedere con il nostro. Il suo era un pianeta isolato da un sistema solare più vivo che mai, che vociava, strillava e rideva. In quei lunedì mattina la sua condizione era ancora più sottolineata. Raccontavamo il passo del vangelo che il prete aveva letto e lui guardava altrove, disinteressato, sino a quando la maestra non lo richiamava: “Ascolta, almeno impari qualcosa”. Era un diverso lui e da tale veniva trattato; anche gli altri bambini man mano cominciarono a prenderne le distanze, prima evitando di rivolgergli la parola, poi non invitandolo alle feste. Il fatto è che per i nostri compagni di classe la sua diversità consisteva unicamente nello stare in un banco isolato lontano dagli altri, come se fosse un membro aggiuntivo, uno che non aveva il diritto di stare lì e che era stato accettato per chissà quale grazia. Mentre per la maestra la sua diversità consisteva nell’essere un modello negativo per tutti noi, piccoli bimbi quasi perfetti, figli di famiglie per bene, che ci facevamo venire i lacrimoni agli occhi al primo accenno di rimprovero; così utilizzava la sua religione per farcelo percepire diverso, per l’appunto, come un mondo che non aveva niente a che fare col nostro sistema solare.
Giorni dopo il cambio di banco, Carmine mi disse: “Se lo sapevo mi stavo zitto e non dicevo niente”. Aveva un espressione distrutta, che non avevo mai visto. Feci cenno di si con la testa e, senza aprire bocca, mi allontanai di qualche passo per poi avvicinarmi ad un altro bambino. Non volevo che gli altri mi vedessero parlare con lui.

mercoledì 6 giugno 2007

martedì 5 giugno 2007

Ventenni



Diciamoci la verità: due sono le categorie trattate in questo periodo dai media, adolescenti e trentenni. Noi poveri ventenni siamo messi nel mezzo, usati a volte per fare numero, altre per dimostrare ciò che che i primi rischiano di diventare e che i secondi erano.

La verità è che non c'è molto da dire su di noi, che spesso di anni ce ne sentiamo trenta per davvero e magari vorremmo averne ancora 17, semmai per rifare tutto un po' meglio, magari godendolcela anche; noi che siamo cresciuti con Beverly Hills, Dawson's creek e O.C. (ebbene si, ce li siamo fatti proprio tutti!), troppo giovani per morire con Kurt Cobain e troppo vecchi per credere ancora in qualche cantante; noi che siamo cresciuti sulla punta del cazzo degli anni '90 e nel buco di culo di questo primo 2000, che abbiamo ingurgitato best company e Non è la rai; noi ancora fermi nell'aula del Brekfast club, perchè rintanarci negli anni '80 - chissà perchè - ci è sembrato naturale; noi cresciuti tra Taricone e Sailor Moon, che volevamo suonare nei Bee-Hive, che abbiamo visto solletico perchè Bonolis era già diventato una persona seria e Bim Bum Bam ormai scacava; noi che abbiamo consumato una prima volta chiusi in un cesso, oppure nel letto grande dei genitopri senza capire bene si ci piacesse o meno; noi che di questi vent'anni non sappiamo che farcene, ci guardiamo attorno e tutti sembrano troppo lontani da noi anche solo per poterli sfiorare. Noi che guardiamo in lontananza e corriamo verso un orizzonte che si allontana ad ogni passo che facciamo.

venerdì 1 giugno 2007

E se ti va male?

Non hai molta scelta: ti strappano da un qualche chissàdove per poi infilarti in un utero. Oppure, guardala così: queste stronze di molecole si potevano legare tra loro in un modo migliore piuttosto che darti questa forma fetale.
Ma ok, lasciamo stare, poteva andarti peggio.
La prima cosa che fai, vedendo la luce, è fottere tua madre all’inverso. Vedi, tutti quei casini tra padre e figlio per il predominio sulla madre nascono proprio per questo: tuo padre non l’ha mai fatta urlare così tanto; è normale che poi si risenta.
Ma andiamo avanti.
Dunque, come mondo ti è capitato la Terra, ok; come famiglia… bè, li vedi tu stesso.
Ti rendi conto?
Le scelte più importanti della tua vita non sono state affidate a te. Il mondo in cui ti trovi va in lento disfacimento, mentre le opzioni parentali nelle quali puoi schizzare, neanche fossi un proiettile ad una partita di roulette russa, sono: famiglia bene, criminale, ricca, povera, mediamente borghese, alto borghese, legata alla politica, alla P2, ad un consorzio mafioso o alla federcommercio.
Tuo padre può essere un cornuto, un puttaniere, un imbecille, un idealista, un cinico, un ignorante, uno che se ne frega, uno che non ti ama, uno che ti ama così tanto da farti culo, uno che prega tutte le sere, uno che vota AN, uno che alle scorse elezioni ha fatto salire Vladimir Luxuria, uno che strilla tutto il tempo, che lavora tutto il giorno, che a casa non ci sta mai, o ci sta sempre perché è disoccupato, o perché di trovarsi un lavoro non gli passa per l’anticamera del cervello.
Tua madre può essere una serva, una donna in carriera, una puttana, una vergine martire votata al sacro idillio familiare, una segretaria di partito, una gioielliera con la pistola sotto il bancone, ti può abbracciare forte quando stai male, può fregarsene perché sì, ok stai piangendo, capita a tutti e poi passa sempre.
E poi ci sono i fratelli e le sorelle: confidenti o arpie. Ci sono zii e zie e nonne e nonni. E tu puoi odiarli, puoi amarli, puoi dipendere da loro, puoi rinnegarli, puoi farci quello che diavolo ti pare, ma nulla può cambiare che ogni atomo è stato replicato da loro. Niente può togliere che il tuo organismo, il tuo cervello, la tua anima altro non è che un mix shakerato a dovere con il meglio il peggio o il mediocre che è in loro.
Quando ti va di culo c’è tutto da guadagnare, ma se ti va male… ti rendi conto del casino in cui sei finito?

venerdì 25 maggio 2007

Morte



Non sono mai stato al cimitero. Anzi, per essere più precisi: non sono mai stato in un cimitero che conservasse i resti di una persona a me cara. Non è per cattiveria, o per chissà quale ragione ideologica, è che, semplicemente, non ho mai sentito il bisogno di andarci.
Da ragazzino questi posti esercitavano uno strano fascino su di me, li immaginavo come luoghi tetri attraversati da anime gementi, da fuochi fatui che danzavano come seguendo una musica inesistente e, forse, anche da qualche demone infernale. In quel periodo divoravo senza mai saziarmi romanzi, fumetti e film horror, erano il mio pane quotidiano e, per quanto sapessi bene che quelle lì erano storie senza alcuna attinenza con la realtà, mi piaceva lasciarmi terrorizzare. Così cercavo sempre nuove paure, luoghi inquietanti, in grado di accelerare il mio battito cardiaco, di mettere in circolo un tipo di adrenalina di cui, di lì a qualche anno, avrei fatto volentieri a meno. Per questo i cimiteri erano il massimo: fantasmi, zombie, vampiri, tutti questi esseri si davano appuntamento lì, per un banchetto a base di sangue. In quegli anni si può dire che la mia idea della morte avesse un qualcosa di zen, non la vedevo come la fine, bensì un nuovo inizio: l’essere umano smetteva di essere ciò che era stato sino a quel momento, e diventava una creatura diversa. E, data la mia visione della vita (affastellata da un lavoro, una famiglia, dalle bollette da pagare e da mille sacrifici simili), lo status dell’oltretomba mi sembrava di gran lunga migliore. In fondo un’eternità passata a bere il sangue delle vergini è molto più esaltante di trent’anni trascorsi a sgobbare per estinguere un mutuo. Quelli per me erano gli anni in cui aspiravo a tutto ciò che prendesse le distanze dalla famiglia medio borghese nella quale stavo crescendo, e i mostri erano quanto di più lontano ci fosse da un esistenza il cui scopo era diventare economicamente produttivo di modo da creare altri esseri da rendere a loro volta economicamente produttivi. E poi il concetto stesso di mostro mi attirava in modo incredibile, questo perché avevo già letto Frankestain di Mery Shelly e davo a quella parola non la sua accezione più stretta, ma quella di creatura rifiutata dalla società perché non conforme ai suoi canoni. Allora desideravo essere un punkabbestia, vivere in città sempre diverse assieme ai miei cani, viaggiare senza alcuna meta, senza dar conto a nessuno; li osservavo quando li incontravo per strada, ammiravo i loro capelli stinti, il sorriso di presa per i fondelli che offrivano ai passanti quando chiedevano qualche spicciolo ed ero costretto ad ammettere che non sarei mai riuscito ad essere come loro. Mi mancava il coraggio di lasciare tutte le comodità, tutte le sicurezze di una casa, di un lavoro e di quelle responsabilità dalle quali avrei voluto sottrarmi.
La mia idea sulla morte cambiò quando morì mio nonno materno. In quell’occasione fui costretto ad ammettere che la morte non era niente se non una fine che arriva fregandosene che la vita si sia conclusa o meno. Sino a quel momento immaginavo ogni esistenza come ad un film nel quale ogni situazione riesce a risolversi prima dei titoli di coda. Quel giorno invece fui costretto a vedere mille faccende in sospeso destinate a restare tali per tutta l’eternità.
Mia madre mi proibì di vedere il cadavere di nonno Carlo, che veniva osservato da amici e parenti, che entravano in casa portando pacchi di zucchero e di caffé. Mia nonna li sistemava nel mobile della cucina, sopra il piano cottura, mentre mia zia metteva sul fuoco la caffettiera, per poi lavarla, riempirla di nuovo e metterla sul fuoco ancora una volta. Ormai l’aroma di caffé aveva impregnato le stanze, assieme a parole dette sottovoce che davano forma ad un unico grande brusio. Nessuno piangeva, mia madre, così come le mie zie e mia nonna, era troppo indaffarata nel tenere a bada tutti quegli ospiti; come una pallina da flipper passava da una signora attempata ad una vecchia amica di infanzia, scambiava poche frasi e poi passava a qualcun altro. Se non fosse stato per il tono di voce baso, per l’aria imbarazzata che sembravano avere tutti e per i vestiti scuri, nessuno avrebbe capito che in quella casa giaceva un cadavere.
Quando arrivarono le mie cugine più grandi mia madre mi affidò a loro. Insieme ci avviammo in chiesa e aspettammo l’arrivo della bara e di tutti gli altri. Parlammo dello studio, dell’esame di licenzia media che avrei dovuto affrontare di lì a un paio di mesi, e dei loro esami universitari. Era una di quelle giornate di primavera in cui il polline sembra accanirsi sui nasi sensibili come non mai, avevamo tutti e quattro il naso rosso, che stropicciavamo con i fazzoletti di carta o con le mani nude. Ai miei cugini più piccoli era stato proibito di venire, così non potevo fare a meno di sentirmi un piccolo uomo ormai maturo, inserito nel regno dei cugini grandi, quelli che vanno all’università e che vengono considerati dal resto della famiglia come degli adulti. A quell’età l’essere considerato come un adulto è in grado di sfamare così tanto la propria vanità da risollevare dal dolore del lutto, che viene alleggerito da una gioia che invade ogni cellula del corpo, e dalla voglia di rispettare quel ruolo appena assegnato con un atteggiamento consono, che non permette alla sofferenza di superare una certa soglia.
Quando entrammo tutti in chiesa e la funzione ebbe inizio, sentii il pianto. Era un pianto appena percepibile che attribuii a mia cugina. Poi non ricordo molto, l’unica cosa che riuscivo a pensare era che non avrei più rivisto mio nonno e facevo fatica a crederci. Mi trovavo di fronte per la prima volta all’ineluttabilità dell’assenza e non ero in grado di accertarlo. Anni dopo avrei attribuito quella stessa sensazione dalla fine di un importante storia di amore (o di qualcosa abbastanza simile): tutto sarebbe cambiato, e le parole, i gesti, le promesse e tutti i progetti accumulati giorno dopo giorno non avevano più valore. Niente sarebbe più stato continuato. La fine. Avevo già perso i miei nonni paterni, ma allora ero troppo piccolo e la notizia della loro morte si confuse al resto della giornata, lasciando su di me lo stesso effetto di una pubblicità. Quando morì nonno Carlo invece ero abbastanza grande per amarlo, per questo mi risultò quasi impossibile far mia l’idea di non poterlo vedere mai più.
Non seguii la bara quando fu portata al cimitero, rimasi con una zia paterna che mi tartassò di domande sulla scuola, mi scarrozzò in giro per la città e mi comprò una maglia. Neppure mia madre quel giorno andò al cimitero e, come me, non ci andò neppure negli anni a venire.


domenica 20 maggio 2007

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi


Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese


venerdì 18 maggio 2007

Vaffa!


Sono sempre stato quello delle decisioni radicali. Non è una scelta ovviamente, è capitato. Tutto qui.
Così ora torno sui miei vecchi passi, ci rifletto su e mi viene da pensare che le persone di cui mi voglio circondare o mi devono servire per conseguire uno scopo, o devono essere gente con cui sto bene e che - a sua volta - sta bene con me; insomma, quelli da cui non ti senti giudicato, ma da cui ti senti stimato.
Un raggionamento da adolescente forse, ma non mi importa. La vita è troppo un casino per circondarsi di persone che te la incasinano di più.

Continuo a cercare la mia serenità, nella sua accezione più semplice e quotidiana, alternando la gioia e l'infinita malinconia che da sempre mi porto dietro. Non so se è bene o male e non mi importa. Per adesso la faccio funzionare così. Poi si vedrà.

martedì 15 maggio 2007

Prendi l'arte e mettila da parte


Cucinare può diventare un'arte, correre può diventare un'arte; anche fare l’amore può diventare un'arte. Vivere può essere un'arte, dipende da come si vive. Io, ad esempio, sono completamente inadatto alla vita, ma non ne faccio un dramma. I geni musicali (tipo Mozart, o David Bowie) si contano sulle dita della mani e lo stesso vale per quelli della vita.
Credo sia per questo che scrivo.
La maggior parte degli artisti (e dei presunti tale) sono persone che hanno completamente fallito nell’arte di vivere. Così si buttano nell’arte per plasmare un mondo diverso da quello reale, un mondo nel quale sanno muoversi, creato a loro immagine e somiglianza. In fondo che cos’è l’arte se non un'imitazione della vita?
Non avrebbe senso riprodurre la vita, se la vita che avessero fosse perfetta; così la ricostruiscono da capo, la riproducono, fanno passare l’infinità del cosmo attraverso il loro organismo, di modo che questa nuova vita diventi un mondo creato non da un dio o dal caos, ma dalla mente dell’artista.
Q
uando penso a quelli che riescono a fare della vita un'arte, mi viene in mente il superuomo di Nietzsche, che prende il mondo e gli da una forma a lui consona. Gli artisti non ci riescono, così sono costretti a creare un mondo immaginario. Certo, può succedere che molti di questi si trovino male anche nel loro stesso mondo... credo che capiti agli artisti senza talento, che a pensarci bene non sono neppure artisti.

venerdì 11 maggio 2007

Scoria



Vi capita mai di chiudere gli occhi solo per il piacere di estraniarvi dalla realtà che vi circonda? Se si, cosa immaginate? Aspirate l'aria e la trattenete nei polponi e poi quando la lasciate andare sollevate le palpebre, come se le due azioni fossero incocebili separate? E quando li riaprite il mondo vi sembra cambiato o è sempre lo stesso? I contorni diventano instabili, i colori sfumati, come ricoperti da una leggera nebbia, le superfici tremano senza sapere se le loro molecole reggeranno ancora a lungo?
Quando tutto crolla esiste un unico frammento capace di resistere alla disintegrazione; se può servire a qualcosa... Quando apro gli occhi il mondo si sbriciola, mostrando la sua consistenza friabile come tufo, pronto a trasformarsi in polvere e a farsi trasportare lontano anche dal più leggero soffio di vento.



giovedì 10 maggio 2007

Pensado alle vittime


Il destino di coloro che vengono ricordati è davvero migliore di quello di coloro che sono attesi dall'oblio? Potendo scegliere, chiederei di essere ricordato o dimenticato? Non c'è una risposta ovvia, perchè immaginando che uno scelga la prima ipotesi esiste sempre la possibilità che questa sia apparentemente esaudita, ma nella maniera beffarda con cui nelle fiabe a volte succede che vengano puniti i desideri illegittimi. E che allora, per esempio, uno che aspiri alla durata del suo nome sia ricordato più per la morte che per la vita, più per una sua eclatante disgrazia che per la fortuna.

da L'abusivo di Antonio Franchini



venerdì 4 maggio 2007

Ragazzi a maggio



Ci sono quei ragazzi che quando arriva la primavera e le belle giornate non hanno proprio voglia di studiare. Forse è il caldo che fa pensare loro a posti diversi dall'Università, forse è il polline che fa starnutire e impedisce di concentrarsi, anche se durante il resto dell'anno questa voglia non è che sia stata particolarmente forte. Questi ragazzi ogni mattina scappano di casa e ci fanno ritorno di sera, si danno al cazzeggio, si perdono per le strade della loro città alla ricerca di qualcosa di nuovo che spezzi la monotonia nella quale si sentono condannati; s'incontrano, pranzano insieme, entrano ed escono dai bar, si fanno compagnia.

Ci sono quei ragazzi a maggio che dovrebbero mettersi sotto con gli esami, ma non lo fanno: sono anni che fanno sempre lo stesso - leggere e sottolineare, leggere e ripetere, ripetere e ripetere - ed ora vogliono qualcosa di diverso. C'è chi desidera un amore dell'altro mondo, chi di partire per l'erasmus, c'è a chi basta un estate come si deve e chi ancora non l'ha capito e si muove come un pupazzetto a molla un po' scarico che non sa dove andare. Ma gli amori non arrivano e l'erasmus lo vincono sempre gli altri, l'estate per il momento è ancora troppo lontana e per capire cosa diavolo si vuole a volte non basta una vita intera. Così studiano per inerzia, piangono senza conoscere il nome delle loro lacrime, ascoltano musica pop o vecchie canzoni che riportano a galla ricordi di un tempo in cui tutto sembrava perfetto nella sua imperfezione. Ma lo sanno: è solo il passato che, quando viene ricordato, assume una forma ideale, di gran lunga migliore da quella che aveva nel momento in cui fu vissuto.

Ci sono quei ragazzi che a maggio vogliono unicamente fare sesso, saltare da un letto a un altro, crogiolandosi in un corpo per rilassarsi e provare quella sensazione che li fa sentire attraenti e più sicuri di se, ma anche questo sembra difficile da trovate. Dicono che la media è troppo bassa anche quando non si punta in alto, che va bene pure una o uno da una botta e via ma deve essere almeno decente, così in breve si sentono soli e non riescono a capire se sono gli altri a rifiutarli o loro a farsi rifiutare. Ci sono invece quei ragazzi che cercano un unione perfetta, un'attrazione che a pelle possa essere forte come un campo magnetico, e nascondono dietro un bisogno di perfezionismo qualcosa che forse è paura, forse è noia o più semplicemente bisogno d'altro.

Ci sono quei ragazzi che a maggio si rendono conto che c'è qualcosa che non va e l'unica cosa che può farli stare meglio è il farsi compagnia a vicenda, per sentirsi meno soli, perchè le risate di gruppo sono più rumorose e, anche se non c'è niente da ridere, contagiano lo stesso. Qualcuno pensa alla propria vita come qualcosa d'indefinito, qualche altro come qualcosa di già finito, ma malgrado tutti questi bilanci la vita scorre e loro sono lì: a studiare, a piangere, a fare l'amore, a guardare le vetrine del corso e, tra un immesione nella popria solitudine e una nella propria ossessione, si fanno compagnia. E questo sembra dare un senso; uno qualsiasi.

domenica 29 aprile 2007

Senza Titolo



Non sarà più un vortice a mettere in ordine
ciò che abbiamo smontato, come
chirurghi provetti che aprono un uomo
per capire com'è fatto e all'intero
ci trovano solo pezzi di motore e varia ferraglia.

C'è un letto di fiori su cui poggia una bara
per due; i cadaveri sono scappati verso vite
che come parallele si incontreranno solo quando
giungeranno al'infinito, quando ormai
ogni cosa sarà del tutto inutile.

Seguiranno maremoti e flussi d'incoscienza
che ci renderanno onda e naufraghi,
dispersi come dei Robinson Crusoe
ma senza eccellenti serie tv a farci sentire
almeno adeguati a qualcosa.

Non piango da un pezzo e ciò che resta
delle mie lacrime sono crisalidi
che non diventeranno mai farfalle;
sono ricordi sfumati dal mio organismo
che ha imparato a dimenticare il dolore.

Ma c'è qualcosa che afferro e so tenere:
c'è la vergogna che non vorrei provare,
le fotografie che ho bruciato e mille
proiettili conficcati tra il collo e lo sterno.
Ma va bene, non si può uccidere chi è morto.




domenica 22 aprile 2007

Mettiamo in chiaro una cosa



Io non sono come te e tu non sei come me. E probabilmente neppure tutti gli altri sono come noi. Ma non per questo io sono giusto e tu sei sbagliato. Non per questo tu sei dalla parte della ragione ed io da quella del torto. Io sono puro e vero di cuore. Per quanto concerne te non posso giurarci, ma sono certo che sei nato puro e vero di cuore anche tu. Io ho i miei valori e tu i tuoi e se li sosteniamo non lo facciamo unicamente per qualche forma di idealismo, ma anche per lo stesso motivo per cui la società crede nei suoi valori: coincidenza (insomma, perchè la battaglia di Maratona è andata in un certo modo e amen).
Odio tutti i pomposi intellettuali dal linguaggio ricercato (quelli che nel solo dire ciao provano a creare una voragine tra loro e il resto del mondo) che credono di detenere la verità. Non credo nella verità o, quantomeno, non credo nella Verità, credo alla mia verità e credo che esiste una tua verità; ma se le osserviamo bene, ci renderemo conto che sono solo punti di vista.
Mi piace stare a discutere sino a fare l'alba e mi piace se chi ho davanti sostiene le proprie idee con precisione e arguzia e prova a farle valere con la testa forza con cui faccio valere le mie. Ma se crede che mi farà cambiare idee allora può stare zitto. Amo il confronto, non sottopormi a qualcosa che un altro interpreta come lavaggio del cervello. Mi piace mettere a terra tutte le mie carte e poi osservare quelle dell'altro, l'ordine che ha posto, capire le differenze, comprenderle qualche volte. Anche se può capitare che mi senta stanco; capita a tutti.
Il fatto è che io non sono come te ed è questo il mio valore. Tu non sei come me ed è questo il tuo valore, chiunque tu sia. Possiamo provare ad incontrarci ma ho il diritto di urlare e anche di distruggerti se vai oltre i miei principi, e provi a calpestare qualcosa che per me è vitale. E tu puoi fare lo stesso con me.
Non lo trovi splendido?

giovedì 19 aprile 2007

Così va la vita



Non se ne è parlato abbastanza della morte di Vonnegut, o forse sono stato io a non riuscire ad ascoltare granché. L'ho saputo una settimana fa, mentre bevevo un frappè ad un bar. Chi me l'ha raccontato l'ha saputo leggendo la notizia sul televidio (lo stesso televideo da cui ha saputo che Pasquale Finicelli - alias Mirko dei Bee-hive nella serie televisiva ispirata a Kiss me Licia - lavora come autista di autobus). Ho pianto. Oddio, non proprio, giusto qualche lacrima che non sono riuscito a controllare. La cosa ha sconvolto la ragazza che sedeva di fronte a me, probabilmente si sarà domandata che razza di deficente è uno che piange per la morte di uno scrittore.
Avrei voluto scrivere qualcosa, ma in questo periodo le parole sembrano avermi abbadonato (e la prova è l'aver scritto "le parole sembrano avermi abbadonato", che non è che sia proprio il massimo dell'originalità). Così ho pensato a qualche citazione, ho sfogliato i libri che avevo, le interviste on line, cercando di evitare il più possibile Mattatoio N 5, a causa di quella sindrome da intellettuale spocchioso che a volte mi prende e che mi fa dire: "Naaaaaa, non posso citare proprio questa roba che conoscono tutti... devo trovare la minuzia che non conosce quasi nessuno". Insomma, una cosa ridicola.
Ho cominciato con lo sfogliarlo e poi ho letto il primo capitolo. Poi sono passato al secondo, al terzo e così via, riempiendo di orecchiette l'intero libro. Alla fine ho pensato di rileggere tutti i libri di Vonnegut che ho o, meglio ancora, di comprare tutti quelli che non ho ancora letto. Questo perchè c'era un piccolo paragrafo in quel romanzo che sembrava essere un addio grandioso e un per sempre ancora più brillante.

La cosa più importante che ho imparato su Tralfamadore è che quando una persona muore, muore solo in apparenza. Nel passato è ancora viva, per cui è veramente sciocco che la gente pianga al suo funerale. Passato, presente e futuro sono sempre esistiti e sempre esisteranno. I tralfamadoriani possono guardare i diversi momenti proprio come noi guardiamo un tratto delle Montagne Rocciose. Possono vedere come tutti i momenti siano permanenti, e guardare ogni momento che gli interessa. E' solo una nostra illusione di terrestri credere che ad un momento ne segue un altro, come nodi su una corda, e che quando un istante è passato sia passato per sempre.
Quando un tralfamadoriano vede un cadavere, l'unica cosa che pensa è che il morto, in quel momento, è in cattive condizioni, ma che la stessa persona sta benissimo in un gran numero di altri momenti. Oggi anch'io, quando sento dire che è morto qualcuno, alzo le spalle e dico ciò che i tralfamadoriani dicono dei morti, e cioè: "Così va la vita".

Ciao Kurt.

sabato 14 aprile 2007

S'è fatta ora



Da ragazzino, verso i 14 anni, avevo le idee chiare su ciò che volevo essere. Uno scrittore, per la precisione uno scrittore come Stephen King e Tiziano Sclavi. Negli anni a venire cambiai genere, così smisi di puntare all'horror; volevo essere come Bukowski e i cannibali (è vero, le due cose erano agli antipodi, ma la maggior parte delle unioni che mi costruivo - e che tutt'ora mi costruisco - hanno ben poco di logico e razionale, sono spinte dalla pancia. Un po' come quando da bambino mettevo la nutella e la mortadella in mezzo al pane; da sole erano perfette, ma il solo pensiero di una loro unione non può che far venire il mal di stomaco; però il loro connubbio mi andava bene. Ecco, per me le relazioni tra le idee e le cose si basano su questo banalissimo concetto: mi devono andare bene). Poi cambiai di nuovo: De Silva, Mozzi, Pascale e poi gli scrittori americani intellettuali e spocchiosi come Pinchon e De Lillo e, infine, Fitzgerald.
Li leggevo - li leggo - e mi chiedevo quando avrei scritto anche io come loro. Pochi mesi dopo avevo già cambiato la domanda: perchè non scrivo come loro? Fui bravo però, uno come me rischia di andare in paranoia dinanzi ad un quesito di questa portata, che non può che non risolversi in un'ammissione di una ben precisa mancanza di talento. Camminai sul baratro di questo precipizio con un buon equilibrio e avrei potuto farci anche un bel po' di chilometri, se solo non avessi incontrato Ena Marchi (editor e traduttrice dell'Adephi) che fece a pezzi quello che per era il mio racconto più sudato. Cercai di sorridere, di non farmi vedere giù. Mi trovavo in una classe di scrittura creativa e gli altri ragazzi fecero qualche battuta a riguardo, niente di cattivo, roba del tipo: "Ahahah tra tanti racconti ha distrutto quello di Umberto". Ero uno con cui si poteva scherzare, la cosa andava più che bene (anche se - ad essere sincero - provai un certo piacere quando la Marchi prese a cazzotti anche i loro scritti). Durante il breack della lezione andai in bagno, quando uscii fuori trovai la ragazza con cui stavo allora che mi aspettava con una faccia da cane bastonato. "Come va?" mi chiese. Capii subito che si riferiva al racconto. "Ha ragione, credo" risposi. "Le critiche servono a questo, no?". Lei fece cenno di si con la testa e mi abbracciò. In fondo non c'era nient'altro da aggiungere, neppure che era stampato sul mio volto che mi sentivo una merda e quella mia frase matura altro non era che una presa per il culo in piena regola.
Quello stesso giorno, dopo la lezione, scherzai con Antonella Cilento - la scrittrice che teneva il corso - chiedendole l'indirizzo della editor per poterle mettere una bomba sotto casa. Lei non rise, si limitò a dirmi con stizza: "Umbè, l'abbiamo capito che sai scrivere ma questo non serve. Devi scrivere delle cose che senti tue, non di roba che per te è come fantascienza. E poi devi essere incazzato. Se non sei incazzato puoi scrivere quanto ti pare, ma non ti serve a niente".
Pensai per un bel po' di smettere di scrivere. In fondo io non ero incazzato e questo perchè avevo impiegato l'ultimo anno della mia vita ad imparare a convivere con le cose che mi avevano fatto incazzare: le ragazze, mia madre, la scuola, i bulli che ti pestano senza ragione, l'incapacità di riuscire a fare quello che volevo. Oddio, queste cose non avevano smesso di farmi male, ma avevo imparato a sopportarle; insomma, avevo abbandonato la lotta e tutto poteva andare per il meglio. O almeno così credevo. Di certo non ero sereno, nè felice, ma cercavo di convincermi dell'opposto.
Alla fine smisi davvero di scrivere, ma fu giusto un'altra presa per il culo. Durò giusto un paio di mesi, nei quali rosicai di invidia nei confronti di tutti quelli che scrivevano e riuscivano a comporre qualcosa di decente. Non volevo smettere di scrivere in realtà, era solo una presa di posizione, un atto dimostrativo nei confronti di nessuno col quale materializzavo la mia protesta per il non essere lo scrittore che volevo essere.
Provate ad immaginare il vostro sogno da bambini, che è diventato quello di adolescenti e di ventenni spegnersi così, di colpo, lasciandovi una libreria strabordante che ha smesso di librare e che sembra urlare: "Il tuo libro non starà mai tra noi". Una cazzata sicuramente, ma una cazzata terribilmente importante. Leggevo i racconti pubblicati, quelli premiati e non mi piacevano.
Un lutto in tutto e per tutto, che poteva anche durare per un bel po' di tempo, se solo la ragazza di cui sopra non mi avesse scaricato di colpo, spostando su di se la priorità dei miei stati d'animo struggenti e distruggenti. Quello che seguì fu un periodo estenuante, il dolore della sua perdita fece venire a galla la rabbia, l'odio, l'insofferenza per tutte quelle cose che non mi andavano ben. Fu come aprire il vaso di Pandora, vedere fuorisciure tutta quella roba che, più che ad un gruppo di fastidiosi coinquilini, poteva essere paragonata ad un tumore.
O io o loro: non c'era altra scelta.
Così è cominciata la lotta, l'accettazione di Sé e il combattimento contro ciò che non va bene, che sia fuori o dentro non importa. Per Hemingway non esiste vita senza lotta, ma credo che sia importante che la persona contro cui lottiamo sia qualcosa di reale, che abbia un volto che non coincida col proprio.
Oggi combatto e, malgrado ci sono certi mulini a vento che non la smetteranno di ossesionarmi, esistono dei nemici di carne, ossa e idee contro cui volgo le mie forze; a volte perdo, altre vinco... ma non credo sia questo il punto.
Per quel che invece riguarda la scrittura, ho capito che scrivere ed essere uno scrittore sono due cose diverse. Essere uno scrittore comporta la voglia di essere pubblicato, lo scrivere di modo che ciò che si produce possa andare bene per un eventuale editore, per il pubblico, che piaccia, che si veda, che vada bene. Così mi limito a scrivere, per me, allo stesso modo in cui mia madre scrive la lista della spesa. Alla fine non la leggono in molti, ma almeno grazie a lei, quando si fa ora, possiamo mangiare tutti un'ottima cena. Il che non è poco.

martedì 3 aprile 2007

Kurt smells like teen spirit




Oggi è l'anniversario della morte di Kurt Cobain.
Non mi va di dire stronzate, non mi va di ascoltare o vedere quei programmi che parlano di lui e che passano a ripetizione l'intera discografia (e che lo fanno sempre e solo in occasione della ricorrenza della sua morte); non mi va di vedere l'immagine di lui che mostra l'uccello agli Mtv music award, non mi va di riascoltare la trama del complotto secondo cui non fu suicidio ma omicio, basta. Non mi va, Kurt è morto e non c'è nient'altro da aggiungere.
In questi casi sparano sempre a mille quelle storie sul Kurt Cobain idolo, simbolo di una generazione, essenza del grunge che è morto con lui. Ma il grunge è morto perchè ormai aveva fatto il suo corso; il grunge è morto come è morta la new wave inglese e la no wave newyrkese, è morto in silenzio, nel trascorrere del tempo; è morto con addosso una camicia di flanella e ai piedi un paio di All Stars da 15mila lire.
Kurt fondamentalmente era un depresso, un tossico, uno che strimpellava e rischiava di far cedere da un momento all'altro la sua voce quando cantava. Kurt era uno magro, scheletrico, che indossava tanti vestiti perchè aveva vergogna del suo corpo e così poteva sembrare più grosso. Kurt era uno che, se non si fosse sparato in bocca, oggi avrebbe 40 anni, una figlia, uno schifo di matrimonio fallito alle spalle (forse due), un battersita che l'ha mandato affanculo perchè più talentuoso di lui, e forse - immaginandolo oggi, ancora vivo - direbbe a tutti di non drogarsi, perchè è una stronzata, io ci sono passato e... ve l'assicuro, quella merda ancora oggi mi martella la testa e... quella roba vi incasina per sempre. Kurt oggi, forse, non canterebbe neppure
Smell like teen spirit ai concerti, così come i Radiohead non suonano più Creep.
Così mi viene da chiedermi perchè diavolo sto qui a scriverne.
La risposta è semplice: perchè Kurt per me è stato come un fratello; o, più semplicemente, come un amico immaginario. Nella solitudine della mia stanza, ascoltavo le sue canzoni e - mentre pensavo al mio schifo di vita da adolescente torturato, mentre pensavo alle ragazze che non mi guardavano, agli amici che non c'erano, ai bulli che mi pestavano, a mia madre che non mi capiva, mentre bevevo fino a vomitare, mentre mi incidevo profonde ferite sul corpo, mentre piangevo perchè non avevo le palle nè per vivere, nè per morire, nè per farmi valere, nè per arrendermi - avevo l'impressione che ci fosse lui a capirmi. E un po' mi sentivo meglio.
Ascoltavo Nevermind e avevo l'impressione di essere meno solo, che da qualche parte tutto quel dolore che provavo fosse condiviso, non solo da Kurt Cobain, ma anche da chi mi diceva "Ascolto i Nivana ma... non solo per la musica ma... per i testi, capisci? I loro testi sono importanti". Pareva che le ore di inglese a scuola servissero solo per poter tradurre quei pochi versi.
Eravamo una generazione perduta... allo stesso modo in cui lo sono tutte le generazioni di adolescenti di ieri e di domani. La musica dei Nirvana rappresentava il modo in cui eravamo persi, per questo non importava la voce strozzata (in fondo lo era anche la nostra), non importava la semplicità degli accordi, non importavano i Pink Floyd che erano meglio, Kurt puzzava del nostro stesso spirito. Tutto il resto non contava
poi molto.


sabato 31 marzo 2007

New Wave




Faceva caldo in quella notte di gennaio
e sfrecciavamo per le strade
con i finestrini abbassati.
Era notte, la città era deserta,
potevamo anche non badare ai
semafori rossi.

Mi passò una cassetta. “Metti
questa” disse. Guardai entrambe
neanche fossero i sospetti dell’ultimo
omicidio annunciato alla televisione.

Dalle casse gracchianti della mia auto
cominciò a fuoriuscire musica
new wave. “Non te l’aspettavi, eh?”
disse lei.
“Non me l’aspettavo” dissi io.

Chiusi nella mi auto, il mondo era
una batteria che intonava
ritmi ossessivi. Ma c’era anche altro,
è solo che non lo vedevamo, oppure
preferivamo ignorarlo,
come facevamo con i semafori rossi.