venerdì 25 maggio 2007

Morte



Non sono mai stato al cimitero. Anzi, per essere più precisi: non sono mai stato in un cimitero che conservasse i resti di una persona a me cara. Non è per cattiveria, o per chissà quale ragione ideologica, è che, semplicemente, non ho mai sentito il bisogno di andarci.
Da ragazzino questi posti esercitavano uno strano fascino su di me, li immaginavo come luoghi tetri attraversati da anime gementi, da fuochi fatui che danzavano come seguendo una musica inesistente e, forse, anche da qualche demone infernale. In quel periodo divoravo senza mai saziarmi romanzi, fumetti e film horror, erano il mio pane quotidiano e, per quanto sapessi bene che quelle lì erano storie senza alcuna attinenza con la realtà, mi piaceva lasciarmi terrorizzare. Così cercavo sempre nuove paure, luoghi inquietanti, in grado di accelerare il mio battito cardiaco, di mettere in circolo un tipo di adrenalina di cui, di lì a qualche anno, avrei fatto volentieri a meno. Per questo i cimiteri erano il massimo: fantasmi, zombie, vampiri, tutti questi esseri si davano appuntamento lì, per un banchetto a base di sangue. In quegli anni si può dire che la mia idea della morte avesse un qualcosa di zen, non la vedevo come la fine, bensì un nuovo inizio: l’essere umano smetteva di essere ciò che era stato sino a quel momento, e diventava una creatura diversa. E, data la mia visione della vita (affastellata da un lavoro, una famiglia, dalle bollette da pagare e da mille sacrifici simili), lo status dell’oltretomba mi sembrava di gran lunga migliore. In fondo un’eternità passata a bere il sangue delle vergini è molto più esaltante di trent’anni trascorsi a sgobbare per estinguere un mutuo. Quelli per me erano gli anni in cui aspiravo a tutto ciò che prendesse le distanze dalla famiglia medio borghese nella quale stavo crescendo, e i mostri erano quanto di più lontano ci fosse da un esistenza il cui scopo era diventare economicamente produttivo di modo da creare altri esseri da rendere a loro volta economicamente produttivi. E poi il concetto stesso di mostro mi attirava in modo incredibile, questo perché avevo già letto Frankestain di Mery Shelly e davo a quella parola non la sua accezione più stretta, ma quella di creatura rifiutata dalla società perché non conforme ai suoi canoni. Allora desideravo essere un punkabbestia, vivere in città sempre diverse assieme ai miei cani, viaggiare senza alcuna meta, senza dar conto a nessuno; li osservavo quando li incontravo per strada, ammiravo i loro capelli stinti, il sorriso di presa per i fondelli che offrivano ai passanti quando chiedevano qualche spicciolo ed ero costretto ad ammettere che non sarei mai riuscito ad essere come loro. Mi mancava il coraggio di lasciare tutte le comodità, tutte le sicurezze di una casa, di un lavoro e di quelle responsabilità dalle quali avrei voluto sottrarmi.
La mia idea sulla morte cambiò quando morì mio nonno materno. In quell’occasione fui costretto ad ammettere che la morte non era niente se non una fine che arriva fregandosene che la vita si sia conclusa o meno. Sino a quel momento immaginavo ogni esistenza come ad un film nel quale ogni situazione riesce a risolversi prima dei titoli di coda. Quel giorno invece fui costretto a vedere mille faccende in sospeso destinate a restare tali per tutta l’eternità.
Mia madre mi proibì di vedere il cadavere di nonno Carlo, che veniva osservato da amici e parenti, che entravano in casa portando pacchi di zucchero e di caffé. Mia nonna li sistemava nel mobile della cucina, sopra il piano cottura, mentre mia zia metteva sul fuoco la caffettiera, per poi lavarla, riempirla di nuovo e metterla sul fuoco ancora una volta. Ormai l’aroma di caffé aveva impregnato le stanze, assieme a parole dette sottovoce che davano forma ad un unico grande brusio. Nessuno piangeva, mia madre, così come le mie zie e mia nonna, era troppo indaffarata nel tenere a bada tutti quegli ospiti; come una pallina da flipper passava da una signora attempata ad una vecchia amica di infanzia, scambiava poche frasi e poi passava a qualcun altro. Se non fosse stato per il tono di voce baso, per l’aria imbarazzata che sembravano avere tutti e per i vestiti scuri, nessuno avrebbe capito che in quella casa giaceva un cadavere.
Quando arrivarono le mie cugine più grandi mia madre mi affidò a loro. Insieme ci avviammo in chiesa e aspettammo l’arrivo della bara e di tutti gli altri. Parlammo dello studio, dell’esame di licenzia media che avrei dovuto affrontare di lì a un paio di mesi, e dei loro esami universitari. Era una di quelle giornate di primavera in cui il polline sembra accanirsi sui nasi sensibili come non mai, avevamo tutti e quattro il naso rosso, che stropicciavamo con i fazzoletti di carta o con le mani nude. Ai miei cugini più piccoli era stato proibito di venire, così non potevo fare a meno di sentirmi un piccolo uomo ormai maturo, inserito nel regno dei cugini grandi, quelli che vanno all’università e che vengono considerati dal resto della famiglia come degli adulti. A quell’età l’essere considerato come un adulto è in grado di sfamare così tanto la propria vanità da risollevare dal dolore del lutto, che viene alleggerito da una gioia che invade ogni cellula del corpo, e dalla voglia di rispettare quel ruolo appena assegnato con un atteggiamento consono, che non permette alla sofferenza di superare una certa soglia.
Quando entrammo tutti in chiesa e la funzione ebbe inizio, sentii il pianto. Era un pianto appena percepibile che attribuii a mia cugina. Poi non ricordo molto, l’unica cosa che riuscivo a pensare era che non avrei più rivisto mio nonno e facevo fatica a crederci. Mi trovavo di fronte per la prima volta all’ineluttabilità dell’assenza e non ero in grado di accertarlo. Anni dopo avrei attribuito quella stessa sensazione dalla fine di un importante storia di amore (o di qualcosa abbastanza simile): tutto sarebbe cambiato, e le parole, i gesti, le promesse e tutti i progetti accumulati giorno dopo giorno non avevano più valore. Niente sarebbe più stato continuato. La fine. Avevo già perso i miei nonni paterni, ma allora ero troppo piccolo e la notizia della loro morte si confuse al resto della giornata, lasciando su di me lo stesso effetto di una pubblicità. Quando morì nonno Carlo invece ero abbastanza grande per amarlo, per questo mi risultò quasi impossibile far mia l’idea di non poterlo vedere mai più.
Non seguii la bara quando fu portata al cimitero, rimasi con una zia paterna che mi tartassò di domande sulla scuola, mi scarrozzò in giro per la città e mi comprò una maglia. Neppure mia madre quel giorno andò al cimitero e, come me, non ci andò neppure negli anni a venire.


domenica 20 maggio 2007

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi


Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese


venerdì 18 maggio 2007

Vaffa!


Sono sempre stato quello delle decisioni radicali. Non è una scelta ovviamente, è capitato. Tutto qui.
Così ora torno sui miei vecchi passi, ci rifletto su e mi viene da pensare che le persone di cui mi voglio circondare o mi devono servire per conseguire uno scopo, o devono essere gente con cui sto bene e che - a sua volta - sta bene con me; insomma, quelli da cui non ti senti giudicato, ma da cui ti senti stimato.
Un raggionamento da adolescente forse, ma non mi importa. La vita è troppo un casino per circondarsi di persone che te la incasinano di più.

Continuo a cercare la mia serenità, nella sua accezione più semplice e quotidiana, alternando la gioia e l'infinita malinconia che da sempre mi porto dietro. Non so se è bene o male e non mi importa. Per adesso la faccio funzionare così. Poi si vedrà.

martedì 15 maggio 2007

Prendi l'arte e mettila da parte


Cucinare può diventare un'arte, correre può diventare un'arte; anche fare l’amore può diventare un'arte. Vivere può essere un'arte, dipende da come si vive. Io, ad esempio, sono completamente inadatto alla vita, ma non ne faccio un dramma. I geni musicali (tipo Mozart, o David Bowie) si contano sulle dita della mani e lo stesso vale per quelli della vita.
Credo sia per questo che scrivo.
La maggior parte degli artisti (e dei presunti tale) sono persone che hanno completamente fallito nell’arte di vivere. Così si buttano nell’arte per plasmare un mondo diverso da quello reale, un mondo nel quale sanno muoversi, creato a loro immagine e somiglianza. In fondo che cos’è l’arte se non un'imitazione della vita?
Non avrebbe senso riprodurre la vita, se la vita che avessero fosse perfetta; così la ricostruiscono da capo, la riproducono, fanno passare l’infinità del cosmo attraverso il loro organismo, di modo che questa nuova vita diventi un mondo creato non da un dio o dal caos, ma dalla mente dell’artista.
Q
uando penso a quelli che riescono a fare della vita un'arte, mi viene in mente il superuomo di Nietzsche, che prende il mondo e gli da una forma a lui consona. Gli artisti non ci riescono, così sono costretti a creare un mondo immaginario. Certo, può succedere che molti di questi si trovino male anche nel loro stesso mondo... credo che capiti agli artisti senza talento, che a pensarci bene non sono neppure artisti.

venerdì 11 maggio 2007

Scoria



Vi capita mai di chiudere gli occhi solo per il piacere di estraniarvi dalla realtà che vi circonda? Se si, cosa immaginate? Aspirate l'aria e la trattenete nei polponi e poi quando la lasciate andare sollevate le palpebre, come se le due azioni fossero incocebili separate? E quando li riaprite il mondo vi sembra cambiato o è sempre lo stesso? I contorni diventano instabili, i colori sfumati, come ricoperti da una leggera nebbia, le superfici tremano senza sapere se le loro molecole reggeranno ancora a lungo?
Quando tutto crolla esiste un unico frammento capace di resistere alla disintegrazione; se può servire a qualcosa... Quando apro gli occhi il mondo si sbriciola, mostrando la sua consistenza friabile come tufo, pronto a trasformarsi in polvere e a farsi trasportare lontano anche dal più leggero soffio di vento.



giovedì 10 maggio 2007

Pensado alle vittime


Il destino di coloro che vengono ricordati è davvero migliore di quello di coloro che sono attesi dall'oblio? Potendo scegliere, chiederei di essere ricordato o dimenticato? Non c'è una risposta ovvia, perchè immaginando che uno scelga la prima ipotesi esiste sempre la possibilità che questa sia apparentemente esaudita, ma nella maniera beffarda con cui nelle fiabe a volte succede che vengano puniti i desideri illegittimi. E che allora, per esempio, uno che aspiri alla durata del suo nome sia ricordato più per la morte che per la vita, più per una sua eclatante disgrazia che per la fortuna.

da L'abusivo di Antonio Franchini



venerdì 4 maggio 2007

Ragazzi a maggio



Ci sono quei ragazzi che quando arriva la primavera e le belle giornate non hanno proprio voglia di studiare. Forse è il caldo che fa pensare loro a posti diversi dall'Università, forse è il polline che fa starnutire e impedisce di concentrarsi, anche se durante il resto dell'anno questa voglia non è che sia stata particolarmente forte. Questi ragazzi ogni mattina scappano di casa e ci fanno ritorno di sera, si danno al cazzeggio, si perdono per le strade della loro città alla ricerca di qualcosa di nuovo che spezzi la monotonia nella quale si sentono condannati; s'incontrano, pranzano insieme, entrano ed escono dai bar, si fanno compagnia.

Ci sono quei ragazzi a maggio che dovrebbero mettersi sotto con gli esami, ma non lo fanno: sono anni che fanno sempre lo stesso - leggere e sottolineare, leggere e ripetere, ripetere e ripetere - ed ora vogliono qualcosa di diverso. C'è chi desidera un amore dell'altro mondo, chi di partire per l'erasmus, c'è a chi basta un estate come si deve e chi ancora non l'ha capito e si muove come un pupazzetto a molla un po' scarico che non sa dove andare. Ma gli amori non arrivano e l'erasmus lo vincono sempre gli altri, l'estate per il momento è ancora troppo lontana e per capire cosa diavolo si vuole a volte non basta una vita intera. Così studiano per inerzia, piangono senza conoscere il nome delle loro lacrime, ascoltano musica pop o vecchie canzoni che riportano a galla ricordi di un tempo in cui tutto sembrava perfetto nella sua imperfezione. Ma lo sanno: è solo il passato che, quando viene ricordato, assume una forma ideale, di gran lunga migliore da quella che aveva nel momento in cui fu vissuto.

Ci sono quei ragazzi che a maggio vogliono unicamente fare sesso, saltare da un letto a un altro, crogiolandosi in un corpo per rilassarsi e provare quella sensazione che li fa sentire attraenti e più sicuri di se, ma anche questo sembra difficile da trovate. Dicono che la media è troppo bassa anche quando non si punta in alto, che va bene pure una o uno da una botta e via ma deve essere almeno decente, così in breve si sentono soli e non riescono a capire se sono gli altri a rifiutarli o loro a farsi rifiutare. Ci sono invece quei ragazzi che cercano un unione perfetta, un'attrazione che a pelle possa essere forte come un campo magnetico, e nascondono dietro un bisogno di perfezionismo qualcosa che forse è paura, forse è noia o più semplicemente bisogno d'altro.

Ci sono quei ragazzi che a maggio si rendono conto che c'è qualcosa che non va e l'unica cosa che può farli stare meglio è il farsi compagnia a vicenda, per sentirsi meno soli, perchè le risate di gruppo sono più rumorose e, anche se non c'è niente da ridere, contagiano lo stesso. Qualcuno pensa alla propria vita come qualcosa d'indefinito, qualche altro come qualcosa di già finito, ma malgrado tutti questi bilanci la vita scorre e loro sono lì: a studiare, a piangere, a fare l'amore, a guardare le vetrine del corso e, tra un immesione nella popria solitudine e una nella propria ossessione, si fanno compagnia. E questo sembra dare un senso; uno qualsiasi.