Da ragazzino questi posti esercitavano uno strano fascino su di me, li immaginavo come luoghi tetri attraversati da anime gementi, da fuochi fatui che danzavano come seguendo una musica inesistente e, forse, anche da qualche demone infernale. In quel periodo divoravo senza mai saziarmi romanzi, fumetti e film horror, erano il mio pane quotidiano e, per quanto sapessi bene che quelle lì erano storie senza alcuna attinenza con la realtà, mi piaceva lasciarmi terrorizzare. Così cercavo sempre nuove paure, luoghi inquietanti, in grado di accelerare il mio battito cardiaco, di mettere in circolo un tipo di adrenalina di cui, di lì a qualche anno, avrei fatto volentieri a meno. Per questo i cimiteri erano il massimo: fantasmi, zombie, vampiri, tutti questi esseri si davano appuntamento lì, per un banchetto a base di sangue. In quegli anni si può dire che la mia idea della morte avesse un qualcosa di zen, non la vedevo come la fine, bensì un nuovo inizio: l’essere umano smetteva di essere ciò che era stato sino a quel momento, e diventava una creatura diversa. E, data la mia visione della vita (affastellata da un lavoro, una famiglia, dalle bollette da pagare e da mille sacrifici simili), lo status dell’oltretomba mi sembrava di gran lunga migliore. In fondo un’eternità passata a bere il sangue delle vergini è molto più esaltante di trent’anni trascorsi a sgobbare per estinguere un mutuo. Quelli per me erano gli anni in cui aspiravo a tutto ciò che prendesse le distanze dalla famiglia medio borghese nella quale stavo crescendo, e i mostri erano quanto di più lontano ci fosse da un esistenza il cui scopo era diventare economicamente produttivo di modo da creare altri esseri da rendere a loro volta economicamente produttivi. E poi il concetto stesso di mostro mi attirava in modo incredibile, questo perché avevo già letto Frankestain di Mery Shelly e davo a quella parola non la sua accezione più stretta, ma quella di creatura rifiutata dalla società perché non conforme ai suoi canoni. Allora desideravo essere un punkabbestia, vivere in città sempre diverse assieme ai miei cani, viaggiare senza alcuna meta, senza dar conto a nessuno; li osservavo quando li incontravo per strada, ammiravo i loro capelli stinti, il sorriso di presa per i fondelli che offrivano ai passanti quando chiedevano qualche spicciolo ed ero costretto ad ammettere che non sarei mai riuscito ad essere come loro. Mi mancava il coraggio di lasciare tutte le comodità, tutte le sicurezze di una casa, di un lavoro e di quelle responsabilità dalle quali avrei voluto sottrarmi.
La mia idea sulla morte cambiò quando morì mio nonno materno. In quell’occasione fui costretto ad ammettere che la morte non era niente se non una fine che arriva fregandosene che la vita si sia conclusa o meno. Sino a quel momento immaginavo ogni esistenza come ad un film nel quale ogni situazione riesce a risolversi prima dei titoli di coda. Quel giorno invece fui costretto a vedere mille faccende in sospeso destinate a restare tali per tutta l’eternità.
Mia madre mi proibì di vedere il cadavere di nonno Carlo, che veniva osservato da amici e parenti, che entravano in casa portando pacchi di zucchero e di caffé. Mia nonna li sistemava nel mobile della cucina, sopra il piano cottura, mentre mia zia metteva sul fuoco la caffettiera, per poi lavarla, riempirla di nuovo e metterla sul fuoco ancora una volta. Ormai l’aroma di caffé aveva impregnato le stanze, assieme a parole dette sottovoce che davano forma ad un unico grande brusio. Nessuno piangeva, mia madre, così come le mie zie e mia nonna, era troppo indaffarata nel tenere a bada tutti quegli ospiti; come una pallina da flipper passava da una signora attempata ad una vecchia amica di infanzia, scambiava poche frasi e poi passava a qualcun altro. Se non fosse stato per il tono di voce baso, per l’aria imbarazzata che sembravano avere tutti e per i vestiti scuri, nessuno avrebbe capito che in quella casa giaceva un cadavere.
Quando arrivarono le mie cugine più grandi mia madre mi affidò a loro. Insieme ci avviammo in chiesa e aspettammo l’arrivo della bara e di tutti gli altri. Parlammo dello studio, dell’esame di licenzia media che avrei dovuto affrontare di lì a un paio di mesi, e dei loro esami universitari. Era una di quelle giornate di primavera in cui il polline sembra accanirsi sui nasi sensibili come non mai, avevamo tutti e quattro il naso rosso, che stropicciavamo con i fazzoletti di carta o con le mani nude. Ai miei cugini più piccoli era stato proibito di venire, così non potevo fare a meno di sentirmi un piccolo uomo ormai maturo, inserito nel regno dei cugini grandi, quelli che vanno all’università e che vengono considerati dal resto della famiglia come degli adulti. A quell’età l’essere considerato come un adulto è in grado di sfamare così tanto la propria vanità da risollevare dal dolore del lutto, che viene alleggerito da una gioia che invade ogni cellula del corpo, e dalla voglia di rispettare quel ruolo appena assegnato con un atteggiamento consono, che non permette alla sofferenza di superare una certa soglia.
Quando entrammo tutti in chiesa e la funzione ebbe inizio, sentii il pianto. Era un pianto appena percepibile che attribuii a mia cugina. Poi non ricordo molto, l’unica cosa che riuscivo a pensare era che non avrei più rivisto mio nonno e facevo fatica a crederci. Mi trovavo di fronte per la prima volta all’ineluttabilità dell’assenza e non ero in grado di accertarlo. Anni dopo avrei attribuito quella stessa sensazione dalla fine di un importante storia di amore (o di qualcosa abbastanza simile): tutto sarebbe cambiato, e le parole, i gesti, le promesse e tutti i progetti accumulati giorno dopo giorno non avevano più valore. Niente sarebbe più stato continuato. La fine. Avevo già perso i miei nonni paterni, ma allora ero troppo piccolo e la notizia della loro morte si confuse al resto della giornata, lasciando su di me lo stesso effetto di una pubblicità. Quando morì nonno Carlo invece ero abbastanza grande per amarlo, per questo mi risultò quasi impossibile far mia l’idea di non poterlo vedere mai più.
Non seguii la bara quando fu portata al cimitero, rimasi con una zia paterna che mi tartassò di domande sulla scuola, mi scarrozzò in giro per la città e mi comprò una maglia. Neppure mia madre quel giorno andò al cimitero e, come me, non ci andò neppure negli anni a venire.